Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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RIFLESSI DI PAURA

Persi distintivo e famiglia dopo una brutta sparatoria che l’ha spinto all’alcolismo, Kiefer Sutherland (ancora nel ruolo di “24”) finisce a fare il guardiano notturno nei poco rassicuranti saloni di un grande magazzino distrutto da un incendio. Il suo predecessore si è squartato la gola (ottimo prologo). Negli anni ’50, l’edificio era un ospedale psichiatrico i cui furiosi echi malefici hanno bisogno di un indirizzo per scatenarsi (pessimo finale, ma c’è una coda ispirata quanto i titoli di testa). Da tutto quanto replica immagini umane – cristalli, pomelli, specchietti retrovisori, pozzanghere – si sprigiona il sanguinario ricatto di spiriti prigionieri che possono distruggere i corpi manovrandone il riflesso. gli chiede Paula Patton, concreta mogliettina dedita alle autopsie. Innamorata e spaventata, saprà ricredersi. Specchio, specchio delle mie brame, chi è il miglior regista del reame horror? Buone chance le avrebbe il francese hollywoodiano Alexandre Aja (suo il buon remake de “Le colline hanno gli occhi”) se non ci avesse ignobilmente preso per i fondelli in “Alta tensione”. Qui dà brio e spessore tecnico all’ennesimo horror coreano riciclato. Poteva fare di meglio, specchiandovisi meno.

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PARIGI

Un ballerino del Moulin Rouge sull’orlo di un rischioso trapianto scruta tetti e destini sul trafficato palcoscenico sotto la torre Eiffel. E’ l’eccellente Romain Duris di “Tutti i battiti del mio cuore” (recuperatelo!), all’ennesima vacanza bamboccia per fare da fulcro alle operette di Cédric Klapisch (“Ognuno cerca il suo gatto”, “L’appartamento spagnolo”). Lo veglia la sorella Juliette Binoche, assistente sociale con troppi figli e impacci affettivi al seguito (ma okkio allo strip). Un maturo e goffo prof della Sorbona corteggia la bella studentessa. Lei ci sta a sprezzo di un coetaneo. Uno spregiudicato architetto, una panettiera (troppo) francese purosangue, due fruttivendoli (poco) separati, notti brave di dame e pescivendoli ai Mercati Generali, il migrante sulla Senna… Parigi, oh cara! Klapisch accumula le due o tremila cose che sa di lei e muore dalla voglia di raccontarci. Si sogna Truffaut tentato da Lelouch e soggiogato da Baudelaire: bozzetti che (non) si incrociano con incuriosita superficialità. A volte funziona.

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ANAMORPH

Da cinque anni il detective Willem Dafoe vive rinsecchito nel rimorso per non aver salvato una collega dalle feroci mani di un serial killer (Zio Eddie) che sventra e decompone i corpi delle sue vittime per formare quadri rinascimentali di macabra ingegnosità. E’ ossessionato, incapace di socializzare, maniaco di un ordine degli oggetti che riscatti il disordine dei ricordi, troppo interiormente colluso con la mente della sue preda? Zio Eddie (forse) fu ucciso dalla polizia, ma gli omicidi riprendono con lo stesso ‘artistico’ rituale. E’ in azione un copycat, ovvero un imitatore? O le indagini sbagliarono obiettivo? C’è un errore di prospettiva, come suggerisce il titolo? L’anamorfismo è un’illusione ottica che distorce un’immagine mutandone il significato, come quei disegni che visti da un lato diverso, o capovolti, cambiano soggetto. Chi scrive non farà finta di aver capito il finale di questo torbido thriller molto compiaciuto di giocare con i tormenti dell’animo e con quelli dei riflessi. La faciloneria di alcune trovate sulle scene dei delitti non aiuta. Né gli spoiler americani (i figli di buona donna che rivelano i finali). Suggerimenti graditi. Per ora la sensazione è solo quella di un approssimativo impressionismo nerastro.

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AMORE & ALTRI CRIMINI

La pupa del boss serbo ha deciso che è il suo ultimo giorno: se ne andrà dopo avergli svuotato la cassaforte. Ma il giovane scagnozzo che brucia chioschi e nostalgie, sceglie proprio quelle ore per rivelarle il suo amore antico, cresciuto con il desiderio insistente per quella donna più matura. Perché la fuggitiva è una bionda ancora avvenente ma quasi sfiorita, il criminale è malato e compiacente, il ragazzo ha una mamma persa nella nostalgia da accudire… Siamo tra i grigissimi caseggiati di una Belgrado che sembra Scampia, non in un film hollywoodiano dove caratteri e situazioni analoghe brillerebbero stereotipati. Anche qui c’è una pistola che prima o poi dovrà sparare, ma contano gli intensi attimi verosimili di vite sbagliate: tragedie inesplose, sottolineate dalle accanite note di “Besame Mucho”. La figlioletta del padrino al tramonto si rifiuta di parlare: appena può corre sul tetto, in piedi sul parapetto. Altri la rincorrono, le si affiancano. Non hanno bisogno di buttarsi per conoscere il nulla.

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THE ORPHANAGE

Decisa a trasformarlo in dimora per ragazzini sfortunati, una donna ritorna con marito e figlio di sette anni nell’orfanotrofio dove trascorse l’infanzia. Inquietanti presenze dopo i bei titoli di testa che pelano i muri: un faro in disuso, la giostra che cigola, porte che sbattono, una vecchia sorvegliante che fa malefiche visite. La macchina da presa spintona l’atmosfera in direzione horror. L’ennesima bufala soprannaturale scontata? Affatto. Un racconto d’amore in una storia di terrore, una dolorosa/struggente versione di Peter Pan, un nero capolavoro di geometrie con l’aldilà. Il ragazzino, a sua volta adottato e sieropositivo, dice di poter parlare con coetanei assassinati in passato. Poi sparisce. L’ottima Belén Rueda, già con Bardem in “Mare dentro”, si ostina alla ricerca del figlio. Perde la fiducia del marito, la bellezza, invecchia, si cala in incubi e nei sottoscala, contatta la medium dal volto magnetico Geraldine Chaplin. Accetta la caccia al tesoro coi fantasmi, scopre una terribile verità in suggestivo bilico tra ghost story e cruda tragedia reale. Un regista e uno sceneggiatore spagnoli esordienti sorprendono e commuovono agitando temi consumati (anzi sputtanati) dai baby spettri d’oriente. Godetevi come qui riescano a trasformare Un, due, tre, stella! In un percorso da brividi.

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ROLE MODELS

Sean William Scott viene degli “American Pie”, Paul Rudd da “Molto incinta” e “40 anni vergine”. Curriculum in regola per fare qui i bellocci assai cazzoni (dickish), abili nel turpiloquio insistito ma divertente. Uno è un playboy cronico che – letteralmente – vanta le conquiste sulla punta delle dita, l’altro un iperteso che non sopporta più il suo lavoro e il suo prossimo. Girano le scuole yankee per pubblicizzare le virtù della verde bevanda Minotaurus, opposte a quelle della droga. Finita la lezioncina, si fanno una canna e urinano come Shrek. Mollato dalla fidanzata (scena esilarante nel suo studio da avvocato di balordi), il frustrato sputa la bibita, esalta gli stupefacenti in classe, finisce con il loro camper cornuto a cavallo di un monumento. E’ la (breve) parte del film che funziona. Seguono 150 ore di riabilitazione sociale, inflitte dal giudice al posto della galera, da scontare in un centro di supporto per giovanissimi diretto da una ex cocainomane troppo riabilitata. Allo sciupafemmine tocca un ragazzino nero che parla più sboccato di lui, al suo compare un fanatico dei giochi di ruolo medievali. Occorre continuare? Doppio percorso formativo: diffidenza, musi, poi KISS, abbracci e lietissimo fine su ogni fronte. Tranne quello del divertimento.

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TERMINATOR SALVATION

Dopo un mediocre terzo episodio con tanto di Barbie killer, un pomposo regista con nome da cine-fast-food (McG, reduce da due “Charlie’s Angels”) cerca di riattivare i cyborg e i cortocircuiti temporali cult ideati da James Cameron nei primi “Terminator”. Dopo l’affrancamento e la vittoria delle Macchine, la Terra è un postaccio arido e cupo dove persino un cerotto sembra brillare e i superstiti organizzano la Resistenza usando antica ferraglia contro nuova ferraglia molto meno onnipotente di quanto la trama millanti: mira pessima, cattiva difesa del nido (Skynet) e le simpatiche moto multiformi non azzeccano un obiettivo. C’è sempre John Connor da salvare retroattivamente, ma anche il ragazzo che diventerà suo padre: causa/effetto che comincia a mangiarsi troppo la coda. Christian Bale è molto sbattuto, ma l’abbiamo visto conciato peggio. Non è ancora il capo dei ribelli: il ruolo tocca a chi già lo fu in “Visitors”. Ma il protagonista è un umano con invincibile scheletro metallico e grande anima al servizio di non si sa chi. Il che fa dire al regista che il film è … bah, forse nei rari attimi depotenziati, tra accanite fanta-esplosioni e frenetici fanta-inseguimenti. Fa capolino kolosso Schwarzy: è digitale, ma non ce ne si accorge.

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ASTERIX ALLE OLIMPIADI

Le sole cose positive del film francese più costoso di sempre – 78 milioni spesi per realizzare scene e scenografie troppo in scia a “Ben Hur” –sono Giulio Cesare Delon che si pavoneggia allo specchio citando il proprio passato di attore caro a Visconti (ma i pargoli capiranno?) e il nuovo Asterix, Clovis Cornillac, che infonde nel galletto forzuto una verve maramalda ignota al suo predecessore. A scapito però dell’intesa con Depardieu Obelix, sempre più svogliato e monotono. Tutto il resto è noia per quasi due ore: citazioni figlie di scarse idee e una tournee di facce note comiche e sportive rivolte al mercato estero: per noi ci sono i giudici/iene Luca&Paolo. Più Schumacher e Todt sulla biga rossa, Zidane che s’inventa il calcio, la supermodella Vanessa Hessler, premio olimpico che fa innamorare sia un suddito di Abracourcix che il romano Bruto in crisi omicida col patrigno. Risate e simpatia sotto il livello di guardia. Incassi colossali oltralpe, come da noi le vanzinate.

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L’ULTIMA LEGIONE

Una volta si chiamava peplum: cinema d’azione storico/mitologica. Forse domani troverà una nobiltà retrospettiva grazie a qualche sbroccato per il passato remoto a oltranza quanto Tarantino lo è oggi per l’antico horror nostrano, pacchiano doc. Intanto ci sorbiamo questi cortocircuiti avventurosi in cui le multinazionali fanno copulare insieme storia e leggende ottenendone aborti di epica mostruosità. Qui, la mano di Dino De Laurentiis che ha firmato gli assegni per portare sullo schermo il fanta-sussidiaro di Valerio Massimo Manfredi, meriterebbe la punizione di Muzio Scevola. Colin Firth centurione controvoglia, Miss Mondo Aishwarya Rai da Bollywood a Bisanzio, Sir Ben Kingsely Merlino per Semola Romolo Augustolo (per l’imperatorino deposto nel 476 ci s’inventa la riscossa dopo soggiorno in casa altrui: la villa di Tiberio a Capri). La spada nella roccia targata Giulio Cesare, l’ingenuità narrativa sugli scudi, l’impero romano che tramonta nel ridicolo…

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SEVERANCE

L’Europa dell’est, un secolo dopo il transilvano Dracula, è tornata a essere una comoda selva presunta oscura in cui ambientare le peggio torture. Dopo i feroci “Hostel” in Slovacchia e l’incubo “Them” in Romania (recuperatelo!), ecco il bosco ungherese dove un gruppo di dipendenti di una losca fabbrica di armi – con fiera denuncia annessa – è vittima e carnefice di un manipolo di sadici militari sbandati. Mine anti-uomo, carne incisa, lanciafiamme, tagliole per orsi, morituri penzolanti, manicomi dismessi, teste che esplodono e arti mozzati. Ma anche divagazioni ecstasyate, denti umani nel pasticcio, il piede tagliato che non entra in frigorifero, un aereo abbattuto per comico sbaglio e la possibilità che i fetidi bunker siano una ex clinica per (troppo) anziani, dove pettorute infermiere divennero lesbiche/ninfomani per disperazione. Oggetto morboso non ben identificato, horror sarcastico che cambia tono a suon di musica. Ricicla, smitizza e cita: “Deliverance” è il titolo originale di “Un tranquillo week-end di paura”, nessuna scritta in scena è casuale, efferate cacce all’uomo mixate a british humour che spiazza. Generi ben frullati dal regista Christopher Smith, che ci inflisse l’imperdonabile splatter chirurgo di “Creep”.

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