Real Stories
Writing interesting stuff for creative people.
Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
Post Image
LA GRANDE BELLEZZA

– Canta il genovese Ivano Fossati – .
Paolo Sorrentino, che romano non è, che a Roma vive ma non vi gira i suoi film (neppure “Il divo”, solo poche scene), che … la guarda a lungo, all’inizio, attraverso i vegliardi pini del Gianicolo (quelli che , e infatti arriverà Venditti), come un turista giapponese, là dove tuona il cannone di mezzogiorno e il monumento a Garibaldi recita: Roma o morte, e infatti il giapponese si accascia.
Poi cala a condor sulle terrazze, quelle del blabla immortalato da Scola (memorabile un discorso/verità esposto come una puntura in faccia alla radical chic Galatea Ranzi che fa da ripresa non-comica della celebre tirata di Gassman), quelle rigurgitanti le orride feste di cui il protagonista Jeb Gambardella (Toni Servillo, è chiaro), riverito autore di un solo libro () e riveritissimo giornalista () con appartamento affacciato sul Colosseo, non ha l\’ambizione di essere il centro, ma quella di poterle rovinare.
Il volgo è divenuto volgare e ha definitivamente cambiato in peggio la connotazione all\’aggettivo. Inevitabile quanto \’inutile\’ citare “La dolce vita”: via Veneto è raffigurata come uno sfondo vuoto; lo sfacelo di Serena Grandi (coraggiosa) è forse la rappresentazione di Anita Ekberg come è oggi; a suicidarsi è un giovane proustiano vacuo; alla struggente Ferilli che balla da attempata soubrette sempreverde per pagarsi le medicine, Jeb promette che la porterà a vedere un mostro marino, evocazione del pescione finale del film di Fellini. Che è ovunque, in nessun posto e soprattutto nel rapido magico incontro con Fanny Ardant e in quello con una giraffa: figura imponente quanto volatilizzabile nella finzione circense. Ci sono le rasoiate di luce di Luca Bigazzi: squarci struggenti di una città magggica a cui Sorrentino mescola l\’evocazione del ricordo e le frasi stentoree per dettare le quali venderebbe la sua arte e ogni altra cosa (); vezzo che causa errori macroscopici quali la superflua storia della Santa, atta solo a farle pronunciare una battuta sulle radici (ma la scena dei fenicotteri va difesa).
Strisce di aerei e di cocaina, una direttrice di giornale nana, una bambina costretta a imbrattare tele come una baby-pittrice in trance isterico, Isabellissima Ferrari (, ), nobili decaduti che si noleggiano per fare da blasone alle cene vip attendendo una chiamata seduti in stanze che, alla loro nascita, avrebbero riservato ai servi. Carlo Verdone, Romano fin dal nome, finalmente libero di essere triste: un vitellone perdente, visibilmente penalizzato dai tagli nel montaggio. dice Jeb, per il quale , forse facendo il controcanto al Noodles di Leone che per tanti anni – più o meno gli stessi in cui Jeb è stato a Roma – è andato a letto presto in “C\’era una volta in America”.
E il papabile porporato Roberto Herlitzka che dà ricette di cucina ma non di spirito, la scaltra differenza tra \’abile\’ e \’bravo\’ (la applichiamo anche alla regia?), il disincantato cinismo di un uomo che sa tutto e – cosa ben più importante – sa che sapere tutto non serve a nulla, desidera ricordare e fa fatica, vorrebbe piangere e ci riesce solo al riparo di una bara dopo aver enunciato che lo vieta il galateo dei funerali (si ruba la scena del dolore alla vedova), vive sepolto nell\’imbarazzo di stare al mondo, conscio che la grande bellezza è e ad essere immenso è .
Avrebbe una ricetta di salvezza: , ma nemmeno lui ci crede giogioneggiando nella fauna a cui rivolge parole che rotolano giù dalle maledette terrazze, al massimo trovano scampo solitario nelle segrete stanze delle principesse nere, luoghi bui stipati di statue invisibili al mondo che le ha sostituite con l\’arte concettuale senza più concetto. Auspici che naufragano nelle ascelle sudate di Carlo Buccirosso, o al cospetto del lamento di un vecchio amico:.
“La grande bellezza” non è un titolo: è un rimpianto, forse di qualcosa davvero solo intuito, intravisto e subito perduto. Roma o morte, non fa più differenza.

Leggi Ancora
11 SETTEMBRE 1863

Un altro tragico 11 settembre, molto più antico. E\’ la data in cui il religioso Marco D\’Aviano, riuscito nell\’intento di unire nella Lega Santa le nazioni europee per contrapporle all\’invasione ottomana, pronunciò un infuocato sermone rivolto alle truppe che dovevano rompere l\’assedio di Vienna. La battaglia (girata in Piemonte) rimane uno degli snodi della storia: sarebbe finito il nostro mondo se a vincere fossero stati i musulmani, qui capitanati da Mustafà Lo Verso? Renzo Martinelli rimette a F. Murray Abraham i panni de “Il nome della rosa” e non fa nulla – come in “Barbarossa” – per nascondere le sue simpatie storico/politiche e la pochezza degli effetti speciali e di ogni forma di \’architettura\’. Perfetto per le trincee di una campagna elettorale.

Leggi Ancora
Post Image
JIMMY BOBO

A differenza di Schwarzy, infatti assai più simpatico, Stallone invecchia (discretamente) senza imbracciare la necessaria arma dell’autoironia. Rieccolo in veste di sicario che affronta esplosioni, esecuzioni e politici corrotti scandendo frasi stentoree: . Fumetto francese, sbirro/spalla coreano, bangbang immutabile. Aiutato da Walter Hill, regista epico nel far cozzare coppie malassortite, si crede un eterno guerriero della notte pompando ostinato muscoli e ricordi.

Leggi Ancora
IL MINISTRO – L\’ESERCIZIO DELLO STATO

Il ministro dei trasporti francese sta sognando una donna nuda che seduce le fauci di un coccodrillo (metafora di una politica che digerisce tutto) quando la realtà lo getta nell\’incubo: uno scuolabus è precipitato. Deve gestire scandalo, rabbia e sondaggi. Coscienza e cinismo. Grande prova di Olivier Gourmet, uomo solo al comando della propria immagine pubblica e delle private voci di dentro. Tragedia di un uomo ridicola che scivola nella favola, nella parabola, nel comico, in tutto quanto serve al Potere per rimanere in sella barcamenandosi su ogni sella. Cast strepitoso, con Michel Blanc indimenticabile non protagonista. Qualche premio César, molta inadeguatezza tangibile e la stroncatura dei Cahiers du Cinema. Tutto perfetto.

Leggi Ancora
Post Image
TRENO DI NOTTE PER LISBONA

Il professore bernese Jeremy Irons (più avvizzito che invecchiato) salva dal suicidio una ragazza misteriosa e ne segue le tracce fino in Portogallo. Si imbatte in echi di dittatura, triangoli amorosi e personaggi di quello che il regista (un tempo sciaguratamente ritenuto l\’erede di Bergman), e il libro a monte, ritengono un thriller filosofico. Invece è malafiction che evoca sbadigli. Ennesimo, micidale Bille August: il peggio del cinema loffio allestito con le migliori intenzioni. Quelle che lastricano l\’inferno.

Leggi Ancora
Post Image
TUTTO PARLA DI TE

Pauline torna a Torino dopo anni, con un doloroso segreto. Si avvicina a una ballerina che vive con angoscia lo stato di neo-mamma: consigli, scontri, depressioni post-parto, rivelazioni. Come nel suo debutto autobiografico “Un\’ora sola ti vorrei”, Alina Marrazzi esplora il passato e gli smarrimenti della maternità miscelando una storia odierna a vecchi spezzoni. L\’intensità di una non-regista trasportata dalla nstalgia (propria o immaginaria) spesso compre il barcollare della sceneggiatura. Film di occhi prima che di sguardi: tristissimi quelli di Charlotte Rampling.

Leggi Ancora
Post Image
HITCHCOCK

Non una biografia del maestro del brivido, ma una cronaca – tra bizzarrie e tormenti – della realizzazione di Psyco (senza H, quella la aggiungerà Gus Van Sant nel remake/ricalco). Personaggi scolpiti col ventaglio (spesso kitsch), ma il paragone tra star di oggi e di ieri diverte: Anthony Hopkins gigioneggia vanesio quanto lo fu il vecchio satiro Hitch; Helen Mirren è la consorte factotum; Scarlett Johannson interpreta Janet Leigh nella fatal doccia; Jessica Biel è Vera Miles; James D\’Arcy si rannicchia ombroso in Anthony Perkins.

Leggi Ancora
Post Image
BIANCA COME IL LATTE, ROSSA COME IL SANGUE

Leo non si pettina, gioca a calcio, ascolta musica e non i prof che spiegano Dante e fanno lezione alla lucargentero. Ma incontra una Beatrice (addolorata) e la sua vita cambia colore. La strada per il paradiso è impervia, ma lui ha un\’amica del cuore e tanto cuore amico… Il best seller di Alessandro D\’Avena, l\’ex protagonista di “Scialla” (il discreto Filippo Scicchitano), la musica dei Modà: la commedia ggiovane fa di tutto per essere divina. Ma è terra/terra seminata con calcolo.

Leggi Ancora

Regia di Paolo Sorrentino

ConToni Servillo, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Roberto Herlitzka, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Galatea Ranzi, Pamela Villoresi, Serena Grandi, Isabella Ferrari, Massimo Popolizio, Giorgio Pasotti, Franco Graziosi, Massimo De Francovich, Ivan Franek, Anna Della Rosa

Grottesco Italia 2013

– canta il genovese Ivano Fossati – .
Paolo Sorrentino, che romano non è, che a Roma vive ma non vi gira i suoi film (neppure “Il divo”, solo poche scene), che … la guarda a lungo, all\’inizio, attraverso i vegliardi pini del Gianicolo (quelli che , e infatti arriverà Venditti), come un turista giapponese, là dove tuona il cannone di mezzogiorno e il monumento a Garibaldi recita: Roma o morte, e infatti il giapponese si accascia.
Poi cala a condor sulle terrazze, quelle del blabla immortalato da Scola (memorabile un discorso/verità esposto come una puntura in faccia alla radical chic Galatea Ranzi che fa da ripresa non-comica della celebre tirata di Gassman), quelle rigurgitanti le orride feste di cui il protagonista Jeb Gambardella (Toni Servillo, è chiaro), riverito autore di un solo libro () e riveritissimo giornalista () con appartamento affacciato sul Colosseo, non ha l\’ambizione di essere il centro, ma quella di poterle rovinare.
Il volgo è divenuto volgare e ha definitivamente cambiato in peggio la connotazione all\’aggettivo. Inevitabile quanto \’inutile\’ citare “La dolce vita”: via Veneto è raffigurata come uno sfondo vuoto; lo sfacelo di Serena Grandi (coraggiosa) è forse la rappresentazione di Anita Ekberg come è oggi; a suicidarsi è un giovane proustiano vacuo; alla struggente Ferilli che balla da attempata soubrette sempreverde per pagarsi le medicine, Jeb promette che la porterà a vedere un mostro marino, evocazione del pescione finale del film di Fellini. Che è ovunque, in nessun posto e soprattutto nel rapido magico incontro con Fanny Ardant e in quello con una giraffa: figura imponente quanto volatilizzabile nella finzione circense. Ci sono le rasoiate di luce di Luca Bigazzi: squarci struggenti di una città magggica a cui Sorrentino mescola l\’evocazione del ricordo e le frasi stentoree per dettare le quali venderebbe la sua arte e ogni altra cosa (); vezzo che causa errori macroscopici quali la superflua storia della Santa, atta solo a farle pronunciare una battuta sulle radici (ma la scena dei fenicotteri va difesa).
Strisce di aerei e di cocaina, una direttrice di giornale nana, una bambina costretta a imbrattare tele come una baby-pittrice in trance isterico, Isabellissima Ferrari (, ), nobili decaduti che si noleggiano per fare da blasone alle cene vip attendendo una chiamata seduti in stanze che, alla loro nascita, avrebbero riservato ai servi. Carlo Verdone, Romano fin dal nome, finalmente libero di essere triste: un vitellone perdente, visibilmente penalizzato dai tagli nel montaggio. dice Jeb, per il quale , forse facendo il controcanto al Noodles di Leone che per tanti anni – più o meno gli stessi in cui Jeb è stato a Roma – è andato a letto presto in “C\’era una volta in America”.
E il papabile porporato Roberto Herlitzka che dà ricette di cucina ma non di spirito, la scaltra differenza tra \’abile\’ e \’bravo\’ (la applichiamo anche alla regia?), il disincantato cinismo di un uomo che sa tutto e – cosa ben più importante – sa che sapere tutto non serve a nulla, desidera ricordare e fa fatica, vorrebbe piangere e ci riesce solo al riparo di una bara dopo aver enunciato che lo vieta il galateo dei funerali (si ruba la scena del dolore alla vedova), vive sepolto nell\’imbarazzo di stare al mondo, conscio che la grande bellezza è e ad essere immenso è .
Avrebbe una ricetta di salvezza: , ma nemmeno lui ci crede giogioneggiando nella fauna a cui rivolge parole che rotolano giù dalle maledette terrazze, al massimo trovano scampo solitario nelle segrete stanze delle principesse nere, luoghi bui stipati di statue invisibili al mondo che le ha sostituite con l\’arte concettuale senza più concetto. Auspici che naufragano nelle ascelle sudate di Carlo Buccirosso, o al cospetto del lamento di un vecchio amico:.
“La grande bellezza” non è un titolo: è un rimpianto, forse di qualcosa davvero solo intuito, intravisto e subito perduto. Roma o morte, non fa più differenza.

Leggi Ancora
1
373