Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
L’ACCHIAPPADENTI

L’ex wrestler, ex giocatore di football americano, ex Re Scorpione, ex ceffo da ruolo pikkiatore, ex The Rock, oggi si chiama Dwayne Johnson e qui infila il fisicaccio nel tutù rosa e nella calzamaglia azzurra muniti di ali. E’ un giocatore di hockey sul viale del tramonto: entra solo per far saltare i molari agli avversari. Per questo lo chiamano la fatina dei denti. Scoraggia i sogni dei ragazzini, compresi quelli dei figlioli della sua adorabile compagna Ashley Judd. Per castigo, è costretto a incarnare il magico personaggio che gli fa da soprannome e in cui non crede: la fatina che lascia il soldino ai bambini che perdono un dentino, l’equivalente del nostro topolino. Ce lo vedete? No? Il film punta ovviamente su quello per fare simpatia. Ma il vero colpo di bacchetta è che spesso ci riesce. L’omaccione di 104 chili con la faccia da pigna rimpicciolisce come Alice, si rifornisce in malo modo di sostanze stupefacenti per essere invisibile, subisce le bonarie ire da Sua Maestà Julie Andrews (fu Mary Poppins), viene fulminato nel dialogo dal fatato Billy Crystal. Meno convincente è la consueta morale super-edificante: ogni sogno adolescente finisce in gloria e guai a chi non sottoscrive. Ma questa favola disneyana ad alto rischio ce la aspettavamo molto peggio. Ma mooolto peggio.

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LA PAPESSA

Leggenda oppure Storia occultata – ma dai – dalla Chiesa? Un film protestante sceglie la seconda lettura e non fa sconti al clero: vescovi che troneggiano nelle libagioni con l’amante in braccio e quella gran faccia da b-movie di John Goodman nel ruolo di un triviale papa Sergio. Al quale sarebbe succeduta la ragazza nata mentre moriva Carlo Magno (814 d.C.) da padre fanatico cristiano e madre ex pagana. Questa lenta pellicola extralarge (40 minuti solo per l’infanzia di Johanna) si prende molte libertà anche sulla leggenda, ma è precisa nel ricordare le feroci parole di Paolo di Tarso nel bollare l’inferiorità della donna, esclusa da educazione e sapere. Si pensa al recente “Agora”, ma quando la protagonista coi lineamenti che sarebbero piaciuti a Giotto si fascia stretto il seno e si taglia i capelli per fingersi monaco benedettino al posto del fratello, ritroviamo in lei la furia assetata di Barbra Streisand che deve mutilare la propria sessualità per poter studiare le Sacre Scritture in “Yentl”. Il popolo romano acclama la saggia Johanna come pontefice, poi la lincia quando un parto prematuro, durante la processione pasquale, ne rivela la vera natura. Dopo un piatto svolgimento classico che non ci risparmia il primo (e ultimo) bacio nel raggio di luna.

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LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI

Mato Grosso significa Foresta Fitta, ma dall’ex polmone brasiliano gli alberi sono quasi spariti. Estirpati, per far spazio ai latifondi dei fazenderos, insieme ai legittimi abitanti: 500.000 indigeni divisi in oltre 200 popoli che vivono in riserve e lavorano sottopagati nelle raccolte, vittime di un elevato tasso di suicidi che in gran parte riguardano giovanissimi. L’ennesimo dramma spinge un capofamiglia alla retornada: riappropriarsi di antiche terre a dispetto dei nuovi recinti (godetevi la sua risposta alle rivendicazioni degli ultimi arrivati). Il mondo ancestrale si accampa di fronte alla ricchezza arrogante: sciamani vecchi e nuovi e sane volgarità di donne. Ma denaro, alcol e Nike corrompono lo spirito. Le nuove generazioni si esplorano curiose, gli adulti passano dalle minacce alla guerra. Un nuovo suicidio scatena vecchie rabbie. L’italo/cileno Marco Bechis viaggia incisivo nel Sudamerica profondo: in primo piano autentiche facce indio, sullo sfondo il cast bianco (lo ‘spaventapasseri’ Claudio Santamaria, la fazendeira Chiara Caselli…). Inizio strepitoso: i ‘selvaggi’ si fingono tali per i turisti, poi si rivestono e salgono sul camion. Eccellente film/documento bisognoso di attenzione e respiro. Che non gli saranno concessi.

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THE AIR I BREATH

Il bancario frustrato Forest Whitaker (Happiness) trova un tragico attimo di felicità sui tetti dopo aver creduto di riconoscere un colpo d’ala nella truffaldina farfalla del suo destino. Brendan Fraser (Pleasure) prova il piacere della passione nel giorno in cui perde il dono di vedere nel futuro. Dura poco: ha sottratto l’afflitta cantante Sarah Michelle Gellar (Sorrow) al suo principale, il feroce boss Andy Garcia, detto Fingers (Dita) per motivi che, come le cicatrici del Joker di Heath Ledger, cambiano a ogni racconto. Per salvare dal veleno di un serpente l’amata moglie (altrui), il medico Kevin Bacon (Love) si getta a capofitto da un grattacielo e nel ridicolo. Le storie si srotolano e si intrecciano (stile “Crash”) con squilli di stile nella forma ma frequenti crolli di sostanza. Con troppe pretese, scrive e dirige Jieho Lee, coreano di New York. Ma i volti noti sono accorsi alla sua corte, compresi Emile Hirsch (sempre più bravo) e Julie Delpy (sempre più bella).

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PA-RA-DA

Bucarest, 1992, tre anni dopo la caduta del tetro ordine di Ceausescu. Marco Pontecorvo, figlio del regista de “La battaglia di Algeri”, già direttore della fotografia in film in cui il meglio è proprio la fotografia (“L’ultima legione”, “PerdutoAmor”), racconta la vera storia di Miloud, clown di strada franco-algerino che riscattò centinaia di ragazzini dai fumi delle fogne e della colla inalata per trasformarli in artisti on the road. Ha rischiato di sembrare un pedofilo mentre ne vinceva le diffidenze adolescenti affiancandoli in curiosità, ostinazioni e ribellioni. Come il film ha rischiato di sembrare un viaggio paternalista tra bozzetti retorici: uno sguardo pietista su scugnizzi perduti (detti boskettari). Ma Pontecorvo, senza credersi un nuovo Fellini poetico/ispirato tra i nasi rossi, ha saputo spremere sensibile cronaca che accalappia ma non ricatta. L’applauso più forte a Venezia 2008 (e si cerchi un tombino chi qui ha voluto vedere una rivalutazione della dittatura in chiave anticapitalista).

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LE TRE SCIMMIE

In cambio di un compenso, un uomo si fa nove mesi di prigione al posto di un politico. Che usa quel tempo per sedurgli la bella moglie e poi abbandonarla. Li la prende male. Il figlio vede, ma non riferisce. Solo l’importuna melodia di un cellulare fa da detonatore all’incastro degli eventi. Il resto è macchina da presa che indugia (non scava, indugia) su stanze, volti, panorami. E’ lentezza che non lascia trapelare né una goccia di curiosità, né l’indagine psicologica vantata dal regista Nuri Bilge Ceylan, di cui queste righe diffidano dopo aver visto per quanto tempo riuscì a inquadrare un uomo su una panchina nella sua opera migliore: “Uzak”. Lo definiscono l’Antonioni d’oriente, ma è un Michelangelo che non scolpisce incomunicabilità, è anzi convinto di tradurre in immagini il drammatico silenzio dei suoi personaggi. Uno dei quali sonnecchia nei titoli di testa, gli spettatori fino a quelli di coda. Sublime regia di luci e contrasti. Sinceramente, ce ne si infischia.

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IL SEME DELLA DISCORDIA

Cambiano (non in meglio) i selezionatori veneziani, non cambia l’occhio strabico sul cinema nostrano: la pellicole migliori in rassegne collaterali, molte patacche in bella Mostra. Qui Pappi Corsicato vorrebbe tradurre in grottesca salsa partenopea un racconto di Heinrich von Kleist di due secoli fa: “La Marchesa von O.”. Una donna si scopre incinta senza causa, ma ha subito violenza… Il sesto senso surreale del regista concepisce un’impacciata trama in overdose da citazioni. Divertimento e recitazioni sotto il livello di guardia. Stile sterile, come Alessandro Gassman marito assente che se ne va con le parole di Rhett a Rossella. La sgommante (sui tacchi) Caterina Murino, ex Bond Girl al primo ruolo da protagonista in patria, è ribattezzata come la moto del Che e gettata nel calderone kitsch: ingrediente troppo piccante usato senza misura ma, vestita soltanto di lilium, è una italian beauty senza pari. Abiti e colori da Carosello, un reggipetto auto-esplosivo, Stella Martina sciocchina in vetrina, Iaia (troppo) Forte, gambe femminili in onore di Truffaut, Isabella Ferrari in versione Sophia, una carrozzella che cade lungo la scalinata, suore messe in croce, Mina e sangria. A leggerlo sembra Almodóvar. A vederlo – purtroppo – è Corsicato.

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ANIMANERA

Un garbato amministratore di condomini, segnato da abusi nell’infanzia, sequestra, stupra e fa a pezzi le sue vittime, tutte sotto i 10 anni. Quanto sa essere feroce nel corteggiamento sessuale (complici gabbie e feticismi vari, il protagonista Antonio Friello scivola nel circo morboso), tanto è meticoloso nel non lasciare tracce. Ma gli sarà fatale l’incontro col trascurato bimbo sognatore in cui rivede se stesso. Raffaele Verzillo ha avuto coraggio nel portare un tema disturbante come quello della pedofilia sul grande schermo. Ma lo fa con tutti i viziacci di quello piccolo: macchiettismo (la coppia borghese), sciatteria e improvvisazione. Ne esce un film scritto male e musicato peggio. Recitato malissimo, con la sola eccezione delle confessioni shock della moglie del mostro e del vecchio prof lupo kattivo. La trama ruba le rare buone idee (da “Il silenzio degli innocenti” l’ingannatrice irruzione parallela) e ne partorisce di sciagurate: la psicologa sempre assorta incappa ovunque in disegni rivelatori, al rabbioso commissario suo partner (Luca Ward, no comment) basta vedere quello di un albero per – tenetevi forte – identificare il solitario vegetale sotto al quale si sta compiendo il tragico finale. Che così diventa quasi comico.

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THE CLONE WARS

Animazione Usa/Singapore 2008
L’ostinato sogno fantascientifico di George Lucas gli ha infine preso la mano. Dopo aver grattato il fondo del nobile barile con sequel e prequel, ha cominciato a scavare. Il risultato è di siderale inutilità: un exploit animato fuori tempo massimo che doveva essere il prologo a una serie tv: 100 imminenti episodi su Cartoon Network. E’ diventato un film a se stante a caccia di nuova gloria nelle galassie adolescenti. Doveva fare da raccordo tra attacchi di cloni e vendette Sith di cui neppure gli aficionados sentivano la necessità filologica. E’ diventato un pretesto furbastro per lanciare nelle fantasie e in commercio un’eroina destinata a coinvolgere il baby pubblico femminile, finora restio a lasciarsi coinvolgere dalla saga di “Star Wars”. E’ l’apprendista guerriera Ahsoka (immancabile pupazzo in arrivo), affibbiata al fiero (non ancora) Cavaliere Jedi Anakin dal saggio Yoda. Fanta-battaglie litigarelle: un po’ anime (ovvero: cartoon) giapponesi, un po’ disanimate marionette nostrane.

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THE ROCKER – IL BATTERISTA NUDO

Gli spettatori di “The Office” e “Six Feet Under” riconosceranno il bravo e bisteccoso Rainn Wilson. Agli altri il protagonista che si infila il vomito in tasca come portafortuna, sembrerà una gradita controfigura del Jack Black di “School of Rock”, complice un ruolo dove si latra piacevolmente di musica ed esistenzialismo. E’ il batterista esaltato/sfigato che una pacchiana band anni ’80 scaricò a un balzo dal successo (vicenda ispirata a quella di Pete Best, il beatle che non divenne mai tale, qui in una comparsata). Vent’anni dopo, grazie a uno spogliarello amplificato da YouTube, il grezzone che scambia la cam per un microfono troverà la riscossa musicale e umana suonando con il grassoccio nipote teenager e i suoi amici: l’ombroso baby cantautore e la biondina ostinata. Dal garage di casa (dov’è ospite sgradito della sorella) allo stadio di Cleveland, passando per arresti, camere di albergo distrutte e sballo alcolico, come prevede il maledetto pedigree di un artista rock. Ma tutto fuori tempo massimo. Peter Cattaneo, già babbo/regista di “Full Monty”, ritenta la via dell’abile ruffianeria spigliata/spogliata su sfondo musicale. Pentagramma umano abusato. Alti e bassi prevedibili. Lievità a oltranza. Ma simpatia, tanta.

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