In cambio di un compenso, un uomo si fa nove mesi di prigione al posto di un politico. Che usa quel tempo per sedurgli la bella moglie e poi abbandonarla. Li la prende male. Il figlio vede, ma non riferisce. Solo l’importuna melodia di un cellulare fa da detonatore all’incastro degli eventi. Il resto è macchina da presa che indugia (non scava, indugia) su stanze, volti, panorami. E’ lentezza che non lascia trapelare né una goccia di curiosità, né l’indagine psicologica vantata dal regista Nuri Bilge Ceylan, di cui queste righe diffidano dopo aver visto per quanto tempo riuscì a inquadrare un uomo su una panchina nella sua opera migliore: “Uzak”. Lo definiscono l’Antonioni d’oriente, ma è un Michelangelo che non scolpisce incomunicabilità, è anzi convinto di tradurre in immagini il drammatico silenzio dei suoi personaggi. Uno dei quali sonnecchia nei titoli di testa, gli spettatori fino a quelli di coda. Sublime regia di luci e contrasti. Sinceramente, ce ne si infischia.
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