Neanche il tempo di dichiarare, a proposito di “Iago”, che Laura Chiatti è la prova che un qualche dio esiste, ed ecco che Egli ce la ripropone così come l’ha creata: senza niente addosso se non gli occhi ultragelosi di Claudio Santamaria, musicista italiano dedito a sonorità eccentriche in quel di Praga. Patologicamente insicuro e possessivo, si rivolge a un’agenzia di spioni diretta da un seduttore/filosofo che lascia libera la moglie di rigenerarsi in accanite avventure e si erge a giudice dei traditi e loro eventuale benefattore. La sua morbosità e quella del nuovo cliente flirtano, fanno – letteralmente – a pugni, si rappacificano, discorrono di chimica del sentimento su sfondo di Kafka e Shakespeare. Quando Desdemona torna a Venezia, capita l’inevitabile fattaccio. Ma poi finisce come deve finire un film polveroso che si pretende (intellettualmente?) dinamico. Roberto Faenza – non è la prima volta – resta impantanato e compiaciuto tra i monumenti delle città d’arte, quelli del Sentimento Pensante e le citazioni di Dante e di Jim Morrison. Ne fanno le spese gli attori, spinti a preistoriche recitazioni elementari come nella goffa scena di sbronza. E gli spettatori, naturalmente. Sì, ma quali?


L’anticamera temporale di Gomorra è Torre Annunziata nel 1986, città assediata dal crimine organizzato: Fort Apache campano (sindaco dixit). E’ il pericoloso campo d’indagine di Giancarlo Siani, giornalista-vero in un’Italia affollata di giornalisti-impiegati, come gli spiega il caporedattore Ernesto Mahieux consigliandogli la vigliaccheria. Per avere troppo infilato il naso nei loschi appalti del dopo-terremoto, fu assassinato a 26 anni, fresco di assunzione al Mattino, unico cronista (finora) giustiziato dalla camorra. Affidandosi a Libero De Rienzo, che emana incredula curiosità a ogni sguardo, compreso l’ultimo rivolto ai suoi killer, Marco Risi torna al cinema di impegno e di denuncia (“Mery per sempre”, “Il muro di gomma”). Usa la vera Citroën di Siani per pedinarne l’ostinazione nel non voler baciare le mani protese sulla città: Francesco Rosi è il modello dichiarato, babbo Dino il Maestro al quale il film è dedicato. E’ l’inevitabile limite di una trama che tutto vuole e deve dire, costringendosi a pennellate simboliche: Maradona e morti ammazzati, belle note di Vasco e brutti modi da fiction. Il contrario di “Gomorra”, opera meno legata al giusto omaggio a una vittima e più libera di affrescare pessimismo (con buona pace di Fabio Cannavaro).

Pollice medio per una trama DreamWorks a scatti frizzante ma sottotono alla distanza, fiera del serraglio di citazioni dalla cine-fantascienza di ogni epoca: blob (dis)umani, mostri di antiche lagune, visoni godzilliane, esperimenti di dottori Kattivi e no, independent days sempre dipendenti da deliri di onnipotenza aliena. Nobile ammasso cinefilo/marziano (più King Kong e Alice) destinato a naufragare negli occhi del pubblico più giovane. Ma se le pupille saranno dotate di occhialini per godersi l’animazione in 3D, allora il nostro pollice schizza all’insù: coinvolgente divertimento che campa alla grande non solo su lanci di oggetti, razzi e sputacchi che ‘mirano’ allo spettatore, ma anche sul naturale – eppure mirabolante – spessore dei corpi in quiete in una stanza. Sposa allungata, sposa sfortunata. Colpita da un meteorite nel di’ delle nozze, la protagonista cresce a dismisura. Il governo la rinchiude tra i mostri che la popolazione non deve conoscere (una specie di “Altrove” dei fumetti Bonelli). Ma… liberi tutti quando occorre combattere extraterrestri extra-aggressivi extraclonati per le star wars. Gag non sempre brillanti fin oltre i titoli di coda (appunto). Katzenberg dice che il suo film sarebbe eccezionale anche in 2D. Mente.

Louise Michel fu un’anarchica francese dell’800. Sognava di fare carne macinata dei ricchi. Qui Louise è un donnone che non beve, ride solo delle parrucche nei cartoon e muggisce sfiduciata ignoranza. Anzi no, è un uomo. Michel invece è uno strambo barbuto incaricato di eliminare l’ex principale che ha lasciato a spasso Louise e colleghe. Ma sotto/sotto è una donna. Occorre continuare? Ok, a vostro rischio e pericolo di divertimento grottesco. In un angolo di Francia di disarmante squallore (Piccardia), la coppia impossibile non stonerebbe in un film dei Coen: dialoghi ruminanti, strambo uso delle pistole, gag e incidenti ultra-scorretti a ogni angolo di una trama surreale che si fa beffe del suo zoo umano. Prima di esaltarsi in un parto a ruoli invertiti, lo stralunato

Inizio fulminante: l’ottimo Dane Cook (un simil-Affleck dotato di talento comico) fa trascorrere a una malcapitata la serata più volgare e molesta della sua vita: dallo stereo in macchina, all’orrido cibo, alle proposte sull’uscio. E’ pagato da (ex) fidanzati affinché disgusti le loro donne in fuga, così che li rivalutino e li richiamino. Terrorismo emotivo, lo chiama lui che ha imparato l’arte dell’approccio sporcaccione-ma-efficace da babbo Alec Baldwin. Se si commuove vedendo “Ghost” si dà del

Sposato con la splendida felina Beyoncé, un top manager di colore ha eleganza, fascino, successo. E un bimbo piccolo. La sua serenità è messa sotto assedio da una segretaria bionda/sexy, temporanea in ufficio e col panico di esserlo come amante. Fa cadere in tentazione il black fusto: quasi lo seduce, ma non lo accalappia (per la gioia dei ‘fratelli’ ringhianti contro le coppie miste). Lo pungola, lo ricatta, lo incastra, ne invade il nido insidiandone il cucciolo. Provocando la fiera reazione della lady (quasi) tradita e una manesca colluttazione assai poco femminile con gran caduta dal parapetto e okkio al lampadario (non se ne vedevano così da “La guerra dei Roses”, con Kathleen Turner e Michael Douglas a lottare fino alla fine… e oltre ancora). La malefica tentatrice è Ali Arter che viene da “Heroes” e da un paio di “Final Destination”. La fanciulla non vale certo Glenn Close e il film di Steve Shill non va oltre un piatto navigare tra pruriti grattati in toilette, rassicuranti rimorsi e collaudati schemi da family thriller. Giusto relegarne la poco fatale attrazione nel buco nero del nostro cinevuoto estivo.

Non è un remake della celebre spy/lovestory di nonno Hitch. Il titolo viene dal soprannome (Notorious B.I.G, divertitevi a scoprire il significato delle iniziali) del rapper nero sovrappeso Christopher George Latore Wallace III, ex spacciatore di crack meritatamente salito alla rabbiosa gloria del gangsta rap del lato yankee-Atlantico e morto ammazzato a Los Angeles nel 1997, a pochi mesi di distanza dal suo acerrimo ex amico rivale Tupac Shakur. La biografia è devota, anzi partigiana, anzi faziosa. E il film è assolutamente riservato agli amanti (o ai curiosi) della cultura hip hop, che qui riconosceranno le figure di numerosi protagonisti di quel mondo (Puf Daddy su tutti). Ma gli interpreti sono superlativi: George Tillman jr, oltre che pacchianamente efficace, è il ricalco perfetto del black santo subito. La nostra adorata Angela Basset di “Strange Days” è la madre in onnipotente angoscia. Il vero figlio di Notorious interpreta suo padre in tenera età.



Scampando a un fiume ghiacciato, un ragazzino scopre di avere il dono del teletrasporto. Cresce surfando tra i luoghi e sulla vita: l’attimo prima rimorchia una mora a Londra, quello dopo è alle isole Fiji. Come un angelo viziato, si ripara dalla pioggia sul Big Ben e si abbronza sopra la Sfinge. Si mantiene smaterializzandosi dai caveau delle banche dopo aver fatto rifornimento. Il regista del primo episodio delle smemorate gesta di Damon/Bourne e dei non memorabili gesti di Brad e Angelina l’un contro l’altro armati, segue svogliato le insulse avventure da cartolina di un legnoso Hayden Christensen, meritevole di espulsione dal nobile ordine Jedi. Lo insegue il Paladino Imbiancato Samuel L. Jackson, al quale non piace che lui e i suoi simili (il fu Billy Elliot) abbiano poteri divini. Ampia parentesi romana: Colosseo svillaneggiato, poliziotti e tassisti naif. Goffo finale prima fracassone e poi freudiano (con mamma Diane Lane). Tutto senza verve, né coraggio, scene di semi-sesso comprese.