L’anticamera temporale di Gomorra è Torre Annunziata nel 1986, città assediata dal crimine organizzato: Fort Apache campano (sindaco dixit). E’ il pericoloso campo d’indagine di Giancarlo Siani, giornalista-vero in un’Italia affollata di giornalisti-impiegati, come gli spiega il caporedattore Ernesto Mahieux consigliandogli la vigliaccheria. Per avere troppo infilato il naso nei loschi appalti del dopo-terremoto, fu assassinato a 26 anni, fresco di assunzione al Mattino, unico cronista (finora) giustiziato dalla camorra. Affidandosi a Libero De Rienzo, che emana incredula curiosità a ogni sguardo, compreso l’ultimo rivolto ai suoi killer, Marco Risi torna al cinema di impegno e di denuncia (“Mery per sempre”, “Il muro di gomma”). Usa la vera Citroën di Siani per pedinarne l’ostinazione nel non voler baciare le mani protese sulla città: Francesco Rosi è il modello dichiarato, babbo Dino il Maestro al quale il film è dedicato. E’ l’inevitabile limite di una trama che tutto vuole e deve dire, costringendosi a pennellate simboliche: Maradona e morti ammazzati, belle note di Vasco e brutti modi da fiction. Il contrario di “Gomorra”, opera meno legata al giusto omaggio a una vittima e più libera di affrescare pessimismo (con buona pace di Fabio Cannavaro).
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