Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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SHREK E VISSERO FELICI E CONTENTI

Imborghesito (anzi nobile), vittima della noia, della nostalgia (di essere) canaglia e della sua nidiata di orchetti urlanti e ruttanti, Shrek cade in tentazione col maligno maghetto Tremotino (okkio a non aggiungergli una n) che gli offre di tornare per un giorno al passato selvaggio e poi ce lo lascia, mutando così il corso degli eventi. Nell’avventura/incubo a ritroso, Ciuchino non è suo amico, anzi lo teme. Le streghe dominano il ‘favoloso’ mondo svolazzando – con l’udito fine – su scope in 3D. Fiona non è mai stata salvata dal suo eroe verde e guida da guerriera la rivolta dei suoi simili con le orecchie a trombetta. Shrek ha solo 24 ore per farla (ri)innamorare di sé… Anche l’orcaica saga DreamWorks è stanca, avvitata, alla ricerca nel proprio passato di nuovi stimoli prima che, l’anno prossimo, scadano i diritti decennali della fiaba di William Steig. Musiche, peti e dialoghi pop fanno centro per un attimo, ma non tengono il ritmo. Lionel Ritchie e un diabolico pifferaio, parrucche e citazioni, asinerie déjà vu e paludi impaludate. Ma c’è qualcosa, anzi qualcuno, ancora strepitoso: il gatto con gli stivali, qui obeso sotto gli occhi ruffiani, ci delizia con saggi motti vigliacchi e falsi movimenti intrepidi. Ora tocca a lui, nel gatastrofico spin off in cantiere.

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fassbinder-PIETRO

A causa di un lieve deficit, Pietro (s)tira la faccia e spinge la mascella in fuori. A causa di un fratello tossico che lo sfrutta e lo fa esibire come un elephant man per gli amici bulli al bar, Pietro stringe i denti e si ostina a credere nella propria famiglia: un duo di ‘presi male’ destinati a finire peggio tra i non-luoghi della periferia torinese. Pietro distribuisce volantini, abbozza e subisce sguardi, si invaghisce di una collega più disperata di lui. Imita eccitazioni che non conosce se non con la disperazione del desiderio. Un po’ per scherzo, molto per non morire. Secondo Forrest Gump . Pietro è uno stupido saggio (o viceversa) che vive in guscio tenace eppure fragile (o viceversa). Accumula. Quando inciampa in un bastone, scatta terribile la frustrazione del mansueto. Poi, Pietro potrà parlare. Pietro Casella (il set è stato in casa sua) è lo straordinario interprete di un film/urlo che nasce documentario, ma esplode in splendide (non)luci in digitale. Dopo “Nemmeno il destino” (recuperatelo!), Daniele Gaglianone torna a sporcarsi le mani con la rappresentazione di una brutta Italia ormai definitiva. Ma è scrutando nelle singole emarginazioni che tocca l’eccellenza. Ha modellato i personaggi su tre affiatati teatranti quasi surreali. Fassbinder è a un passo.

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CHE FINE HA FATTO BIN LADEN?

Documentario Usa 2008
Nel 2004, il documentarista satirico Morgan Spurlock s’ingozzò per settimane nei fast food americani senza nutrirsi d’altro e filmando i risultati: Mc-deperì rischiando la morte per mettere in allarme gli obesi yankee devoti al cibo Usa e getta. Colpo ad effetto con grandi limiti taciuti: una overdose di torte al mirtillo avrebbe provocato il medesimo effetto e ruffiana assoluzione del consumatore, presentato sempre e solo come vittima sacrificale senza volontà. Le bocche si spalancarono per lo stupore, poi continuarono a invocare calorie. Ora (ma l’opera è del 2008) ritorna per chiedere in giro, in Medio Oriente, dove sia il Ricercato Numero Uno. Intervista nei supermercati, setaccia l’elenco telefonico, bussa alle grotte. Fa in modo che la sua serissima ossessione burlesca indaghi tra i motivi dell’odio di quelle popolazioni per la sua. Non è un antifondamentalista, né un pacifista a senso unico: non permette all’autocritica di prendergli la mano e ha una coraggiosa intuizione geniale quando evoca un fast food arabo dove Al Qaeda smercerebbe vergini, beatitudini e falafel. Ma resta l’impressione di un’onesta incursione risaputa e nulla più, anche se forse ciò di cui oggi si ha più bisogno è proprio un ritorno all’ovvio conclamato, spruzzato di Michael Moore e condito di Borat.

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I PADRONI DELLA NOTTE

Come nel capolavoro di Lumet, “Onora il padre e la madre”, anche qui due fratelli, un padre, echi di tragedia nera. E di nuovo la storia è geometrica, girata con perizia: robusto poliziesco d’altri tempi. Qualcuno ha sentenziato: . Scrive e dirige James Gray, vincitore di un leoncino veneziano, nel 1994, a 24 anni con “Little Odessa” (recuperatelo!). Di ritorno nella comunità russa di New York, il killer Tim Roth doveva fare i conti con la vendetta dei nemici, un genitore ostile e una madre malata di cancro. Ancora rapporti psico/famigliari complessi e feroce malavita dell’est agitano i presunti padroni della notte, ovvero la polizia. Per la quale Gray fa palesemente il tifo beccandosi del reazionario (quando va bene). Guai se i feroci boss trapiantati sapessero che il brillante giovanotto che gestisce il loro locale/paravento ha un padre d’alto grado in divisa e un fratello che ne segue brillantemente le orme. Un omicidio riallaccia il legame del sangue. E molto dovrà scorrerne, facendo deragliare ogni regola. Il bellimbusto redimibile Joaquin Phoenix e il retto/squadrato Mark Whalberg si fronteggiano su nobili sfondi: Robert Duvall è la Giustizia, Eva Mendes un gran bel premio.

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COVER BOY

Il precario italiano Luca Lionello viene dall’Abruzzo e mente alla famiglia sul suo vero lavoro: fa pulizie saltuarie. Il precario rumeno Eduard Gabia viene da una brutta infanzia a Bucarest e annaspa a Roma. Si incontrano, si scontrano, condividono casa, pastasciutta, gita al mare, licenziamenti e la speranza di un ristorante alla foce del Danubio. Ma la fotografa Chiara Caselli, giocando sporco, fa del secondo un’icona del marketing laccato/parassita. Storia sensibile e bravi attori. Ma tono scontato che non s’impenna, sguardo gay che tutto avvolge e nulla risolve. La padrona di casa Littizzetto è fuori posto e dialetto. Gran fiorire di rami pretenziosi: “L’ultima rivoluzione” come sottotitolo, spezzoni di tg, e dialoghi di troppo esemplare didattica. Carmine Amoroso, che travestì e ripittò Lo Verso nel malaccorto “Come mi vuoi”, qui asciuga il grottesco in cronaca desolata. Ma la malcelata ossessione del nudo e la smaccata banalità con cui ritrae la Milano da bere ne rivelano la precarietà dello stile.

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NESSUNA QUALITA’ AGLI EROI

Bruno Todeschini, bravo attore nostrano adorato dai francesi, è uno svizzero trapiantato a Torino che apprende di non poter procreare. Resterà sempre e solo un figlio, il figlio di un egocentrico padre artista dal quale è fuggito. Ha un debito con un losco banchiere e un’adorata moglie che non vuole turbare con le verità: la sempre splendida Irène Jacob, oggi perfetta sosia di Fanny Ardant, che si offre a noi subito di profilo, come nel manifesto di “Film Rosso”. L’usuraio sparisce, suo figlio Elio Germano (sovraesposto in trucco, ruolo e nudità) assilla il protagonista, corpi ed eventi precipitano in clichè surreali e smarrimenti spossanti in musica stridente. Si dimentichi l’intenso “La spettatrice”, in cui Barbara Bobulova guardava passare la vita con i falsi movimenti dell’anoressica sentimentale a causa di troppo abortita fame d’amore. Qui, immerso in un universo maschile fatto di personaggi che non acquistano verità di persona, confondendo i chiaroscuri psichici coi cambi di colore dei mobili in scena, Paolo Franchi smarrisce le diagonali, il tono, se stesso (vedi i rabbiosi sfoghi in conferenza stampa veneziana). Qualcosa di travolgente, disperato, eppure fasullo, trabocca dal suo film. Uno dei peggiori italiani del decennio.

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LA SICILIANA RIBELLE

Dopo che la mafia le ha ammazzato padre e fratello, suoi adorati ‘uomini d’onore’, una 17enne si presenta dal giudice coi diari in cui da sempre annota tutti i crimini di Cosa Nostra nella sua terra. Non è una paladina della giustizia – è cresciuta sputando sugli sbirri e non smette – vuole solo usare lo Stato per vendicarsi. Trasferita a Roma con una nuova identità, isolata, maledetta dalla madre, deve prima uccidere la mafia dentro di sé per risultare credibile al processo. Conoscendo i codici, fa una memorabile passerella in tribunale guardando fisso negli occhi chi le sibila odio da dietro le sbarre. E’ l’attimo più riuscito del film di Marco Amenta, già autore di un documentario su Provenzano prima della cattura. La biografia tragica funziona e coinvolge quando naviga lontano dalla guitta malafiction nostrana, ovvero quando non spinge gli elicotteri sotto il Colosseo o fa innamorare al primo sguardo Primo Reggiani di una mora sovrappeso sotto il Teatro di Marcello (il che nulla toglie alla più che maiuscola prova di Veronica D’Agostino). Rita Atria si suicidò una settimana dopo l’attentato a Paolo Borsellino, resa orfana per la seconda volta. Il film è ispirato e dedicato a lei. E’ possibile dedicarle anche una recensione?

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UN CUORE GRANDE

Il 23 gennaio 2002, l’americano di origine ebrea Daniel Pearl, corrispondente del “Wall Street Journal (curriculum letale in Pakistan), fu rapito a Karachi da un gruppo di integralisti islamici che lo decapitarono dopo poche settimane e un orrido filmato in cui veniva costretto ad auto-denunciarsi. La moglie Mariane, all’epoca incinta, ha scritto un libro sul proprio tormento e fortemente voluto questo film, presentato a Cannes coi produttori: Brad Pitt e Angelina Jolie. Che la interpreta sullo schermo. La stessa supersxy Jolie che serpenteggia seducente in “Beowulf”, è capace di amputarsi, di asciugarsi, di rintanarsi nella disperazione dignitosa, nei riccioli neri a spasso ma composti, nel profilo e negli ambiti compunti di una donna alla quale non assomiglia per nulla (Mariane è afro-cubana), ma a cui sa dedicarsi con credibile sforzo. Nel suo primo film oltreoceano, il regista inglese ‘impegnato’ Michael Winterbottom, già capace di morsi feroci alla politica yankee in Medio Oriente e a Guantanamo, si dimostra cronista rigoroso di false piste e vane speranze inseguite con riprese febbrili. L’assenza di dramma gratuito ha decretato il flop americano. E’ invece il pregio di un’opera ostica, condannata a rimanere avvitata: doloroso thriller dalla fine già nota.

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VERSO L’EDEN

Buttato nell’Egeo, un migrante/simbolo che usa una lingua inventata, si rifugia in un villaggio vacanze chic. Travestimenti e disavventure (idrauliche) da vecchie comiche, ma il moderno Ulisse (Itaca è la Francia) è dotato di una notevole prestanza fisica che lo cava da ogni guaio, smentendo la direttrice dell’albergo () e trasformando in autogol la socio-morale pensata dal regista ‘politico’ Constantin Costa-Gavras (“Z”, “Missing”, “Amen”). Si è giustificato dicendo che se avesse scelto un protagonista brutto, l’avrebbero accusato di razzismo. Il che è un altro autogol liberal. Scamarcio approda alla spiaggia nudista, mostra le chiappe (ma a un vigilante basta togliersi l’asciugamano per surclassarlo), subisce l’allupato assalto di uomini e donne, s’indigna, si concede, è ingannato, viaggia, fugge, impara che l’abito fa il monaco e la divisa peggio. Dice poche battute, ha Charlot (e Tarzan) come modello, se la cava bene. Attraversa stati di polizia, egoismi tecnologici, liti e acquazzoni borghesi. Riceve doni, truffe e consigli. Sconvolge una mensa e una colazione sull’erba. A Parigi, un illusionista gli rivela che: . I registi impegnati no di certo, ormai ci siamo rassegnati.

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LA VERITA’ E’ CHE NON GLI PIACI ABBASTANZA

Ben Affleck (non) convince Jennifer Aniston che il matrimonio non serve. Jennifer Connelly trasloca dalle bugie, Drew Barrymore dai portali sul cyber-love, Scarlett Johansson non trasloca dove la vorrebbero. Ginnifer Goodwin, bella sorpresa del cast, è la regola perdente che si sogna eccezione. Donne in nervosa attesa sull’orlo di una cornetta, ecco tutto quello che avete sempre saputo sull’essere scaricate ma non avete mai osato confessarvi: scuse, pretesti, mezze verità, ostinate speranze (). Scappatoie auto-salvifiche escogitate da menti femminili allevate con la malsana idea che se un maschietto insulta una femminuccia è perché – sotto sotto – la desidera. Invece lui la ritiene una str… molesta, o una-botta-e-via, o pensa la frase del titolo. Che viene da “Sex and the City” e ha dato origine al bestseller scritto da due sceneggiatori della serie. E dunque: gag cattivelle, massime da applicare a vite al minimo, nove storie intrecciate di varia (dis)umanità sentimentale. Con fiato corto da telefilm glamour: intensità brillante da fuoco d’artificio. Dopo mezz’ora restano solo coriandoli di ostinato romanticismo e tanta voglia di tenerezza nel rimettere le coppie a posto.

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