Gruppo di famiglia in un interno infestato. Lui, lei, la figlia adolescente di lui, il loro bimbo, una domestica messicana molto devota e presto in fuga (incenso e crocefisso non funzionano) e un cane lupo a caccia di (id)entità. Non è il seguito del film/evento della scorsa stagione – girato con poco e sopravvalutato tantissimo – ma il suo prequel: la zia in frequente visita è infatti la protagonista del film precedente, ovvero degli eventi successivi. Siamo nell’agosto 2006 e la struttura è identica: budget all’osso e formula ripetitiva, facile da spacciare per rigorosa: tutto è visto attraverso le telecamere installate per controllare ossessivamente la nuova abitazione e una scritta ci avverte che il materiale è stato concesso dalla polizia a tragedia avvenuta. Per arrivarci anche stavolta occorre sorbirsi quasi un’ora di normal noiosity lungo l’asse: piscina/salotto/cucina/scala/cameretta. Così quando il colpo fracassone arriva davvero, dopo molti colpetti a vuoto, lo spettatore salta sulla sedia solo se non vi si era addormentato. A Lamberto Bava, in “Ghost Son”, basta inquadrare lo strumento con cui si controlla a distanza il sonno dei neonati per crearci inquietudine. Qui il nuovo paranormal regista evoca solo gridolini con vago senso di sbadigliante minaccia.


Storia vera, che scuote Washington. Dopo l’11 settembre e l’invasione dell’Afghanistan, l’esperta agente Cia Valerie Palme indaga sulle presunte armi di distruzione di massa. Trova disarma(n)ti scienziati irakeni in fuga e il bombardamento delle armi di distrazione di massa made in Usa. Ha un marito ex diplomatico, l’ultimo yankee ad aver fronteggiato a brutto muso Saddam. Lo manda in Niger sulle tracce di una vendita di uranio sospetto (che l’Italia avallò). Niente uranio. Ma ascoltano allibiti Bush dichiarare la guerra in tv contraddicendo i loro rapporti. Lui scrive un articolo rivelatore, lei viene subito privata della copertura ed esposta a disprezzo e pericoli. La coppia entra in crisi, tutti gli uomini del presidente anche… Dopo “Green Zone” – stessa denuncia, ma dal fronte operativo – ritorna il glorioso thriller politico a stelle e strisce: determinato, incalzante, efficace. Dialoghi tra spioni sulla panchina con vista Casa Bianca, liti in famiglia nel parco giochi. Naomi Watts, in scia alla Kidman, sorprende per energica dedizione. L’arrabbiato Sean Penn che fuma (!) spettinato ha gli spigoli giusti (quelli che mancavano a Redford) per eruttare brutte verità liberal. Credibile anche quando affronta la moglie in pigiama, come se scoprisse quella notte che non ha sposato una dattilografa.
E\’ una Storia Infinita, sempre quella. In un mondo fantasy, in un tempo fantasy, un fanciullo reincarnato, individuato come si fa coi Dalai Lama, è l’elemento di equilibrio tra gli Spiriti e le quattro nazioni umane: Acqua, Terra, Fuoco, Aria. Rimasto ibernato per un secolo (che per lui è volato), non ha ancora completato l’addestramento per domare il poker di elementi: si scioglie nel Regno dell’Acqua, dovrà combattere quello del Fuoco padroneggiando l’Aria. Si chiama Aang, è un Avatar e viene da una serie animata. Che aveva bisogno di un Cameron, o di uno Spielberg. Invece se n’è impossessato, pare su consiglio della figlioletta, M. Night Shyamalan, regista col denso pallino dei sesti sensi e di quelli naturali, ma ormai garanzia solo di mire sbagliate. Dopo “Unbreakable” (buono) e“The Village” (mediocre), queste righe persero la fede in lui quando lo spretato Mel Gibson ritrova quella in Dio in “Signs”: sciocco abuso di marziani e cerchi nel grano a scopo micro-teologico. I pochi che hanno visto “Lady in the Water” e “E venne il giorno” sapranno quanto male gli riesca fare poesia o paura flirtando con la Natura. Qui, tra lemuri pipistrelli e ghiacciate battaglie ancestrali, per domare l’elemento Cinema servivano sguardo personale e ironia. Shyamalan usa mitici luoghi comuni e il 3D.

Terzo film con protagonista l’ispettore Calla(g)han, ormai più carogna inkattivita che poliziotto crepuscolare. Dirty Harry crede le donne vadano bene solo a letto o in cucina, ma gli affiancano una partner nella lotta a una banda di feroci assassini capitanati da un assatanato reduce dal Vietnam. Clint ci resta di ghiaccio, poi sbraita, infine collabora. Lei è Tyne Daly del telefilm “New York New York”. Violenze rudi, affiatamento improbabile.

Un gruppo di monaci francesi in un montuoso villaggio algerino: terre aspre da western dell’Anima, inquadrate con mano antica (i cinefili penseranno a Bresson e Dreyer, picchi rigorosi che esigono rispetto e il bianco e nero). Non fanno proselitismo: molta preghiera, curano ferite e piedi scalzi, danno consigli alle ragazze innamorate. Il priore studia San Francesco e il Corano, scrive in arabo, predica la fratellanza interreligiosa. Infatti anche il titolo originale ha echi antichi: “Degli uomini e degli dèi”. Assistono alle feste religiose mussulmane, sono buoni pastori di un gregge umano che li stima affezionato. Arrivano i fondamentalisti: stranieri sgozzati, paura diffusa, dubbi, tentazioni di fuga, assalto al monastero nella notte di Natale. Loro restano perché

L’allenatore Fabio De Luigi ha una moglie in fase ‘castità post-parto’ e una Eva tentatrice in campo. L’amante pallavolista consente squisite battute originali su ‘darla via subito’ e ‘penetrare la difesa’. Il collezionista di donne (e di intimo) Alessandro Preziosi resta impotente di fronte ai rifiuti della vicina di casa ecologista. Quindi gli serve un tiramisù (‘souvenir’ sarebbe una battuta troppo alta per chi si spancia sentendo:

Quattro poliziotti bianchi danno l’assalto al fatiscente grattacielo di una banlieue francese per vendicare un compagno ucciso da una gang di nigeriani. Partiti per suonare (

Telecamera con vista sul Bel Paese del mandolino e dell’olio buono: guarda-che-luna nel cielo stellato, dimmi quando quando quando matura l’amore maturo nei vigneti, catapulte capulete tra la romantica Verona e Siena sempre in palio, viottoli maremmani da percorrere in Cinquecento sull’assolata onda del sentimentalismo pittorico/dolciastro (con contorno di 883). Se fosse fatto bene sembrerebbe uno spot di automobili, invece è un intollerabile filmaccio stereotipato, atto ad accalappiare romantici anglosassoni col natural made in Italy. Al cuoco yankee in trasferta Gael García Bernal tocca l’isterica celebrazione culinaria: sia lode ai formaggi elogiando il tartufo! Alla fidanzata trascurata Amanda Seyfried, provvidenzialmente orfana, tocca la retorica romantica: folgorata sotto al balcone di Giulietta, ritrova tra le pietre (sigh) una lettera di 50 anni prima, rintraccia colei che la spedì e parte con lei (e col nipote provvidenzialmente single) alla ricerca del buttero perduto: il pastore/contadino a cavallo Franco Nero, provvidenzialmente vedovo, le sorriderà con piglio western. Perché lei è Vanessa Redgrave, sua vera moglie da sempre e sublime persino in questo stucchevole ciarpame. Milena Vukotic, Marina Massironi e Luisa Ranieri. Terra, pioggia, sudore e lacrime da cartolina.

La solitudine del killer è peggio di quella dei numeri primi. Grazie a cinema e letteratura, è una condizione di cui sappiamo tutto: il sicario consumato ha sonno leggero, pistola pronta ad ogni sobbalzo, conversazione scarna, mira infallibile, arte balistica, sguardo assorto (lesso se è Nicolas Cage). E voglia di smettere, di (ri)farsi una vita. Non ci riesce quasi mai. Qui tentazioni e rimorsi toccano a George Clooney. Dopo una brutta vicenda scandinava, si rifugia tra i borghi abruzzesi, dove un forestiero spicca come uno struzzo al cimitero: infatti don Bonacelli gli vede subito l’inferno dentro. Il prete ascolta l’opera, i baristi inneggiano a Sergio Leone e Carosone (originale, non remix) canta i guai di chi vuol far l’americano. L’americano telefona a gettone, fa ginnastica appeso come Richard Gere ai tempi d’oro, ama la prostituta Violante Placido (a luci rosse post-Moana), insegue ombre nemiche in viottoli deserti, prende la mira per sfuggire al fato che l’ha preso di mira. Retorica in processione al termine di un film inesploso che il carisma innato di Clooney non riesce a salvare dal metodico nulla imposto da Anton Corbjin, regista/fotografo più a suo agio con U2, Depeche Mode e Joy Division. Sua Beltà George ha voluto aiutare l’Abruzzo. Le disgrazie non vengono mai sole.

Enrico Brignano e Maurizio Casagrande vanno sul Mar Rosso in scia alle cinevacanze vanziniane e al loro nuovo padrone: un Panariello Cecchi Gori, tendenza berlusca. Vogliono allungare la lingua al momento giusto per conservare il posto di lavoro e onorare il mutuo. Il primo ha una moglie intraprendente ma insoddisfatta, due figlie adolescenti e una mamma giocatrice. L’altro un rampollo finto/nerd (non sia mai detto) e una consorte che usa il corpo come premio e/o castigo. Il che consente: stretta attualità politica, primo amore, nausee sospette, qualche mignotta a cui si parla della moglie (non sia mai detto), qualche moglie mignotta, un parto dromedario, un furto di corallo, sexySergio Muniz, Michela Quattrociocche, Laura Torrisi, la rosa dei ventri e un casinò benefico. Battute e situazioni innocue (non sia mai detto) che sembrano subito scusarsi di ogni riferimento troppo esplicito e di ogni minimo affondo cinico. A zappare la terra del castigo – chissà perché – finisce solo chi ha scelto la donna sbagliata. Qualcosa viene da “Laguna blu”, qualcosa dalla Carrà, molto da Fantozzi (