La solitudine del killer è peggio di quella dei numeri primi. Grazie a cinema e letteratura, è una condizione di cui sappiamo tutto: il sicario consumato ha sonno leggero, pistola pronta ad ogni sobbalzo, conversazione scarna, mira infallibile, arte balistica, sguardo assorto (lesso se è Nicolas Cage). E voglia di smettere, di (ri)farsi una vita. Non ci riesce quasi mai. Qui tentazioni e rimorsi toccano a George Clooney. Dopo una brutta vicenda scandinava, si rifugia tra i borghi abruzzesi, dove un forestiero spicca come uno struzzo al cimitero: infatti don Bonacelli gli vede subito l’inferno dentro. Il prete ascolta l’opera, i baristi inneggiano a Sergio Leone e Carosone (originale, non remix) canta i guai di chi vuol far l’americano. L’americano telefona a gettone, fa ginnastica appeso come Richard Gere ai tempi d’oro, ama la prostituta Violante Placido (a luci rosse post-Moana), insegue ombre nemiche in viottoli deserti, prende la mira per sfuggire al fato che l’ha preso di mira. Retorica in processione al termine di un film inesploso che il carisma innato di Clooney non riesce a salvare dal metodico nulla imposto da Anton Corbjin, regista/fotografo più a suo agio con U2, Depeche Mode e Joy Division. Sua Beltà George ha voluto aiutare l’Abruzzo. Le disgrazie non vengono mai sole.
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