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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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A NATALE MI SPOSO

A Saint Moritz, dove si gioca a polo su ghiaccio snob, Massimo Boldi porta la valanga inesplosa della sua comicità che – nelle interviste – si vanta di non essere volgare e – nella pratica – ricorre ai peti esplosivi e al pupazzo di neve con la scopa nel culo. E\’ un cuoco milanese (garbata mail: @ciapelindelcu) in Svizzera per preparare il banchetto di nozze della figlia del napoletano a caccia di dote Vincenzo Salemme, sposato con una romanaccia arricchita. Così ce n\’è per ogni pubblico, compreso quello siciliano (l\’allupata Teresa Mannino) e quello toscano: uno strepitoso Massimo Ceccherini preferisce le vegliarde alla carne giovane, possedendo a più riprese le 85 primavere di Valeria Valeri. Come dargli torto? Qui Nancy Brilli sotterra la Canalis, sia come recitazione (ci vuol niente) che come presenza. Si ride pochissimo, tra porcellini d\’India e colpi di pettine all\’inguine. Ma peggio del film con la s(Ventura) a Miami non poteva essere. Irrita però l\’ostinata presunzione di Boldi nel credersi un Totò incompreso, palese quando azzarda uno strip tra smorfie trapassate remote che si credono sempreverdi, come “Il tempo delle mele” in colonna sonora. Molto più onesta la pancia di Enzo Salvi: flaccido, autoironico e volgare dichiarato. Cipollino qui si chiama Gustavo Godendo. E\’ l\’unico.

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SERAPHINE

Pochi hanno assistito al nero umorismo sociale di “Louise Michel” e dunque riconosceranno la straordinaria Yolande Moreau che vi interpretava un donnone che muggiva sfiduciata ignoranza e in realtà era un omone. Qui è Séraphine de Senlis, serva devota nel primo Novecento in un paesino francese della Piccardia. Le sue mani passano dall’acquasantiera, al bucato, ai colori che acquista grazie ad estenuanti risparmi e che crea con personali tecniche naturali per assorbire e rendere sulla tela l’esplodere di fiori e foglie con movimenti da insetti. Ispirata dal suo angelo custode e dal contatto con prati e cortecce, scoperta da un noto collezionista tedesco proco prima della Grande Guerra, realizzò brevemente il sogno di avere grandi mezzi per esprimere la sua arte ‘neoprimitiva” (e di vestirsi in velluto e taffetà), prima di un declino mentale che ha echi di Van Gogh. Pioggia di Cèsar, gli Oscar d’oltralpe, su questa accurata biografia extralarge che contempla con impeccabile stile patinato: ruscelli boschivi, rudezze umane e magnetici dipinti. Una scelta sorprendente per trasmettere il tumulto di un animo naif. Appare come un (voluto?) cortocircuito culturale. Oppure un autogol.

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MAMMUTH

Un pachidermico macellaio, preistorico in ogni senso: la stazza, la moto, i lunghi capelli da wrestler in vestaglia (alla Mickey Rourke). Si commuove ascoltando la telefonata di uno sconosciuto, crede nella solidarietà umana e sociale, ha orgoglio proletario e un’innocenza sessuale che lo spinge a farsi fregare dalla prima sexy/furbastra che incontra e a masturbare il cugino malato (che ricambia). Dopo una vita a scolpire suini per il banco, è andato in pensione con festicciola celebrata dal capo porcino. Lo attendono una burbera/adorabile moglie porcina (la straordinaria Yolande Moreau di “Séraphine”, penalizzata da un doppiaggio troppo soave), un puzzle, una maniglia rotta e tanta noia. Sorpassato da tutto e da tutti, si mette on the road su due ruote per recuperare i versamenti previdenziali dei suoi antichi mestieri. Trova pochi documenti, molta ostilità, un vecchio giostraio in fuga dalle tasse, un becchino strambo, una scialba nipote che lo annusa devota e il fantasma dell’amata Isabelle Adjani, lugubre angelo truccato. Vagabondando tra Obelix e Cyrano, Gérard Depardieu fa suo un bizzarro film surreale illuminato da lampi felliniani. Ma il feroce duo anarchico che firmò l’esilarante zoo umano di “Louise Michel” si ferma all’anticamera del capolavoro. E’ una colpa.

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IL REGNO DI GA’HOOLE – LA LEGGENDA DEI GUARDIANI 3D

Scontro fratricida tra gufi: sogni e artigli cozzano tra simili e in famiglia. Il fratello buono sfugge ai rapaci militarizzati (con bat-arma segreta) che l’hanno rapito, e trova l’Olimpo pennuto che si credeva leggenda. Il fratello vanaglorioso cede alla volontà di potenza: vittima/complice, come in ogni fattoria/dittatura della Storia. L’ottimo Zach Snyder di “300” e “Watchmen” fa volare oltre i confini di “Avatar” uno strepitoso 3D di lotta e di governo. Assegna nuove regole a questa parte di tecno-universo del nostro cine-sistema solare, cambia le prospettive al mondo di ali, piume, becchi, pupille, costellazioni, incendi e tempeste di neve. La zavorra è la trama che non decolla mai: non c’è un solo attimo, un solo dialogo, un solo snodo, un solo destino che ogni decenne non conosca a memoria, grazie alla poca fantasia del fantasy e a precedenti visioni. C’è di tutto: da Nemo, al profeta di “Happy Feet” (stessi creatori), al bardo molesto di Asterix. Insolitamente appiattito sui libri australiani all’origine, Snyder mette le divise di Sparta ai volatili, ma non dota mai le loro geometrie di un colpo di sano realismo non solo estetico: persino i topi sono pietanza fuori campo. Volano i gufi volano nello spazio tra le nuvole: ascese velocissime e voli prevedibili. Guffa!

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SAW 3D

Inizia il Capitolo Finale – stavolta sembra proprio l’ultimo – e rieccoci nel mitico primo episodio. Che fine ha fatto il malcapitato che si amputò un piede per liberarlo dalla catena? Lo vediamo, in uno dei tanti ritorni al passato, bruciare la ferita per cauterizzarla. E’ ciò che la saga dell’Enigmista ha fatto con lo spettatore: dopo 6 anni e 7 episodi, dotati di genio giallo/horror via via in liquefazione, siamo ormai cauterizzati di fronte allo sbudellamento splatter che alza costantemente il livello sanguinario (ci vuol poco) e quello dei marchingegni omicidi (ci vuole morbosa inventiva feroce). Lame rotanti nei toraci, spuntoni dritti negli occhi (i nostri, bersagliati dal 3D), mandibole staccate, teste mozzate, corpi a brandelli, uncini per sollevare i pettorali come capitò a Richard Harris tra i Sioux in “Un uomo chiamato cavallo”. I deboli di stomaco stanno alla larga già da tempo, chi è arrivato fin qui sa cosa lo aspetta e sogghigna dell’esagerazione negli smembramenti. Peggio è doversi trangugiare una trama smembrata che (ehm) campa su ritmi collaudati, ma perde i gustosi allacci di quando Lui era agonizzante ma vivo. La sua signora vuole smettere coi ‘giochi’, il suo erede no, un millantatore fa la vittima, la mattanza cresce a vanvera…E’ davvero tempo di: .

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HARRY senza magia – I DONI DELLA MORTE

Fantasy Usa 2010
Bambini e babbani si portino un videogame (o una Bibbia) per ingannare il tempo. Perché il guaio del non magnifico settimo film del maghetto non è che fa paura ai fanciulli, anzi gli attimi da brivido sono gli unici azzeccati: un serpentone che divora gli umani (spettatori compresi) e la stilizzata fiaba nera del titolo. Il guaio è la noia che azzanna più mortifera di Voldemort, mentre Harry&Friends vagano nella trama plumbea che prepara lo scontro finale. Le dense peripezie narrate dalla Rowling si smarriscono a caccia di un doppio incasso: nebbia in regia, ruggine in sceneggiatura. Tra missili Mangiamorte, frasi da western e ambientazioni da fantascienza vecchio stile, si procede per Grandi Illuminazioni scollegate dalla magica logica che ci risucchiò a Hogwarts (ma parlatene subito di spade e segreti, benedetti ragazzi!). Qualcuno ci lascia le penne e sembra che 25 cm di bacchetta possano bastare… Sfidano gli sbadigli: i cloni di Matrix Potter, un inseguimento in sidecar (vedi: “Gli Aristogatti”) e la festa kitsch con bislacca security medioevale. L’ottimo cast adulto fa poco, il mediocre cast giovane troppo: quando stanno a mollo un’ora in the wild – tenda, dubbi e gelosie – e la radio parla di una Bella scomparsa, si materializza l’orrido incantesimo Twilight. REPELLO BABBANUM!

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LA VITA E’ BELLA

Film spaccato in due: dapprima gag d’altri tempi (vasi di fiori e uova in caduta libera), tormentoni farseschi (lo scambio del cappello), gustosi pezzi di bravura ogni volta si crei l’occasione di un delirante monologo con mimica. E’ lo straordinario Benigni che ha il dna di Chaplin. Poi: qualche genialità e molto coraggio. Complice Vincenzo Cerami in sceneggiatura, l’inaspettato tema dell’Olocausto viene affrontato senza mai nominarne gli orrori, tramutato in un estroso gioco a squadre a beneficio del figlioletto con la faccia da Pinocchio (!), internato col babbo e lontano da mamma Nicoletta Braschi: ridicole traduzioni dal tedesco, improbabili nascondini, un gioco a punti con in palio un carro armato. Un lampo coglie noi e il protagonista quando l’amico gerarca che potrebbe salvargli la vita, lo affronta supplice e sconfortato, ma solo per chiedere aiuto per un indovinello. Lì lo sguardo si fa lucido, la mimica bloccata, Benigni accusa il colpo di una trama che viaggia sul labile confine che separa il grottesco dal tragico, costringendolo a precari equilibri spesso irrisolti. L’idea a monte appare più forte del risultato e bene ha fatto Robertaccio a rinunciare al lieto fine tanto invocato da Cecchi Gori. Oscar come miglior film straniero, miglior interprete e miglior colonna sonora (Nicola Piovani). Giuliano Ferrara ancora se ne duole.

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STANNO TUTTI BENE

C’era una volta Mastroianni, in un film ‘felliniano’ di Tornatore del 1990: massacrato dalla critica, non amato del pubblico. Un anziano padre siciliano, orgoglioso dei figli lontani, passava di città in città scoprendo le loro menzogne e un’Italia in brutta crescita televisiva. Marcello il Grande rivive oggi in Bob De Niro: uguale malinconia disillusa, magistrali gesti di amarezza. Vedovo e malato, in fuga dal giardinaggio e da grigliate disdette, viaggia a sorpresa col trolley, da New York a Chicago e da Denver a Las Vegas. Solo brutte sorprese: il rampollo pittore è in brutti guai di droga in Messico, quello che lui crede direttore d’orchestra fa solo comparsate al tamburo, la figlia ricca è stata lasciata dal marito e ha un figlio molto inkazzato, quella povera è una ragazza madre dalla sessualità indecisa che lo ospita in una casa in prestito. è ciò che tutti sembrano suggerirgli. Lui chiede, loro mentono, lui lo sa. Stile passatista che conserva molte delle stonature retoriche del’originale, ma gli cambia il finale, così che la chitarra triste e i sogni in frantumi siano solo la necessaria anticamera al pranzo col tacchino, come esige il copione d’oltreoceano. Tono necessariamente grigio, illuminato dal cast.

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WALL STREET – IL DENARO NON DORME MAI

Il denaro non dorme mai, recita il sottotitolo che taglia due parole al cinico proclama del redivivo Gordon Gekko. dice appena uscito di galera (negli Stati Uniti i finanzieri delinquenti ci vanno), pronto a riaddentare da pescecane i nuovi predatori dell’economia che da reale si è fatta virtuale. E’ arrogante, seducente, sprezzantemente in cattedra come nel film anti-yuppie del 1987 di Oliver Stone (figlio di un broker) che fruttò l’Oscar a Michael Douglas, rapace oggi come allora. Ha un cellulare preistorico, un bestseller da cavalcare e una figlia che lo detesta con fidanzatino broker pure lui, ma con ideali ecologici. Il dramma famigliare interferisce coi conflitti del business e il film va in tilt. Ambiziosi squaletti in Ducati, sentimenti off shore (ops), rigurgiti moralisti in una trama che funziona solo quando ha sguardo . Infatti brillano Josh Brolin ed Eli Wallach nel buio/mogano delle alte sfere, mentre fanno annoiata tenerezza Shia LaBeouf e Carrey Mulligan nel loft dove galleggiano scontati. Si vede Saturno divorare i figli in un quadro/metafora di Goya. Vale anche per Stone: il primo “Wall Street” non fu un grande parto, questo neppure. I film migliori li fa quando non ha bisogno di soldi.

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THE SOCIAL NETWORK

Come fu che, alla fine del 2003, uno sfigato (nerd), un perdente (loser), uno studente ebreo bruttino che non sbavava per le confraternite snob, forzò il database di Harvard e creò Facebook, un socio/giocattolo da 25 bilioni dollari che ha fatto di lui il più giovane miliardario moderno. Mark Zuckerberg lo fece per il motivo più vecchio del mondo: trovare donne, vendicandosi di quella che l’aveva mollato. E per lotta di classe, quando dovette difendersi legalmente da chi sosteneva che la sua creatura non fosse solo sua. Tradì davvero l’amico/socio (ricco) e la fiducia dei fratelli vogatori olimpionici (straricchi), come racconta il libro di Ben Mezrich da cui il film è tratto? David Fincher sposa la tesi fotografando, in suggestivo color Hogwarts, un social fight club in cui fanno scintille gli acuti dialoghi serrati di chi scrisse “Codice d’onore” e “West Wing” (Oscar sacrosanto). Simile fin dal cognome, il bravo (non da oggi) Jesse Eisenberg è un maghetto in ciabatte nelle intemperie del clima, degli algoritmi e degli ormoni: stizza cinica, superba per orgoglio e/o frustrazione. Justin Timberlake indossa i vizi e l’anarchia di Sean Parker, fondatore di Napster. La singolare vicenda di una gallina ‘maltrattata’ è l’emblema della comica tragicità di etichette (tag) a cui è impossibile sfuggire.

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