Film spaccato in due: dapprima gag d’altri tempi (vasi di fiori e uova in caduta libera), tormentoni farseschi (lo scambio del cappello), gustosi pezzi di bravura ogni volta si crei l’occasione di un delirante monologo con mimica. E’ lo straordinario Benigni che ha il dna di Chaplin. Poi: qualche genialità e molto coraggio. Complice Vincenzo Cerami in sceneggiatura, l’inaspettato tema dell’Olocausto viene affrontato senza mai nominarne gli orrori, tramutato in un estroso gioco a squadre a beneficio del figlioletto con la faccia da Pinocchio (!), internato col babbo e lontano da mamma Nicoletta Braschi: ridicole traduzioni dal tedesco, improbabili nascondini, un gioco a punti con in palio un carro armato. Un lampo coglie noi e il protagonista quando l’amico gerarca che potrebbe salvargli la vita, lo affronta supplice e sconfortato, ma solo per chiedere aiuto per un indovinello. Lì lo sguardo si fa lucido, la mimica bloccata, Benigni accusa il colpo di una trama che viaggia sul labile confine che separa il grottesco dal tragico, costringendolo a precari equilibri spesso irrisolti. L’idea a monte appare più forte del risultato e bene ha fatto Robertaccio a rinunciare al lieto fine tanto invocato da Cecchi Gori. Oscar come miglior film straniero, miglior interprete e miglior colonna sonora (Nicola Piovani). Giuliano Ferrara ancora se ne duole.
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