Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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UN GELIDO INVERNO

Come la vendicativa 14enne de “Il Grinta”, un\’ostinata 17enne del Missouri va in Arkansas a causa di un padre scomparso. Se non lo trova, almeno cadavere, il tribunale le sequestrerà la proprietà dove accudisce la madre malata (di nostalgia?) e alleva i fratellini insegnando loro a scuoiare scoiattoli e ad accettare con dignità la carità di vicini e parentastri. Il babbo spacciatore (e spia) ha fatto una brutta fine? La giovane esplora brutti segreti, aggira bugie, dà fastidio ai ceffi sbagliati (ovvero a quelli giusti) e coinvolge lo zio indeciso tra rude protezione e senso di vendetta: John Hawkes, ottimo anche in colonna sonora. La ragazza ha la determinazione dettata dal senso del dovere che costituisce le fondamenta di ogni micro-epopea yankee. Si muove nel clima cupo di un oggi senza tempo, tra cavalli, asce, giochi di bimbi architettati con nulla e sterpaglie che furono prateria. Il western epico dei Coen riassume in sé un genere e una Storia, questo della brava Debra Granik che ha vinto sia al Sundance che a Torino, è un post-western che continua ai margini della propria storia, in non-più-luoghi da cui si fugge solo con le anfetamine o arruolandosi. Jennifer Lawrence si merita l\’Oscar e la parte di Rebecca Romijn Stamos in “X-Men”. E chi ha riconosciuto Laura Palmer?

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IL GRINTA

Per vendicare il padre assassinato che la portava a caccia di procioni, una 14enne troppo leggera per cavalcare un pony ma molto efficace nel contrattare, ingaggia uno sceriffo che non crede a favole, sermoni e promesse di denaro, ma è altrettanto efficace (leggi: senza scrupoli) sebbene sia un ubriacone cieco di un occhio. Lei crede nei vincoli di una legge onnipotente, lineare come le sue trecce. Lui è un risoluto cecchino che non rispetta nemmeno le promesse fatte ai moribondi. La grinta è di tutti e due. Dall\’Arkansas al Texas, dalla derisione al rispetto, dalla provocazione alle sfide infernali. E\’ un paese per i Coen, il western? E non era già Un paese per vecchi il loro miglior western? Ogni genere è il paese dei Coen. Li hanno praticati tutti, come mitologie non da reinventare (o da rifrullare alla Tarantino), ma da mettere alla prova per vedere se ogni cine-motore gira ancora, installato nella loro carrozzeria placcata di citazioni, humour nero e sublime manierismo. Jeff Bridges, nel ruolo che fruttò a John Wayne l\’unico Oscar, impallina nemici e biascica racconti come se chiudesse la leggenda del western. Matt Damon gli fa il controcanto ranger. Nevica sul Mito e sulla Frontiera. Dei pellerossa si vede solo il territorio. Il gran cowboy finisce al luna park. The end.

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MIA MOGLIE PER FINTA

Dopo un umiliante matrimonio evitato per un soffio, il chirurgo plastico Adam Sandler ha imparato a rifarsi il nasone e a non fidarsi delle donne. Si finge sposato con una malafemmina che maltratta lui e i bambini per intenerire le pupattole. Tiene la fede in vista, lascia un biglietto sul comodino la mattina dopo, non si impegna. Quando si innamora di una babybionda da urlo che gli trova l’anello in tasca (la debuttante Brooklyn Decker), le assicura che sta divorziando, ma lei esige di conoscere la quasi ex moglie. Tocca alla fedele assistente: la madre single Jennifer Aniston che si è tenuta scialba e spettinata per esplodere brillantissima nello shopping, dal parrucchiere e nel ruolo della sexy vamp un po’ sboccata. Ci prende gusto, diverte, ma parla troppo e spinge la trama per un’ora alle Hawaii, dove il medico playboy capisce chi ama davvero e Nicole Kidman riesce a fare la sciocchina in piscina (e ballerina) senza perdere la faccia, in via di miglioramento post-restauro. Sandler delega gran parte delle idiozie al compare allupato, ma – al solito – resta in bilico tra ironia kattivella (il rapporto coi bambini) e gag trucide (la paziente con ciglia terremotate). Lo dirige l’affezionato Dennis Dugan, specialista – non è un merito – in piccole pesti e grandi bamboccioni.

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LA DONNA CHE CANTA

Dopo l\’improvvisa morte della mamma, due gemelli canadesi scoprono dal testamento di avere un fratello e un padre ignoti in Libano. Ma è soprattutto il vero vissuto della defunta che non conoscono. Alla ricerca delle radici, le loro indagini in Medio Oriente scorrono in travagliato parallelo con la giovinezza della madre: cristiana, dissidente politica, prigioniera, vittima di brutalità, fuggitiva in Quebec. Il regista Denis Villeneuve si può permettere una durata extralarge di 130 minuti: ha la totale padronanza delle leggi che regolano le biografie drammatiche, gli incroci del fato, il cinema epistolare, la commozione suscitata e poi esaudita. Ma sono leggi, appunto. Regole letterarie, cinematografiche, musicali. Regole. Spesso se ne vede la traccia.

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RABBIT HOLE

Le cose, la vita, qualcosa può ancora essere bello dopo la morte di un figlio? Una coppia alto-borghese reagisce in modo diverso, ma mantiene un inossidabile amore di fondo. Lui vorrebbe ritentare, lei trova odiosa anche solo l\’idea del sesso. Lui sopporta la riunione serale dei genitori in lutto e quasi vi incontra un\’amante, lei non tollera chi si consola pensando che un dio avesse bisogno di un angelo in più (). A lui manca il cane, allontanato dopo aver causato l\’incidente fatale; lei va a cercare il giovane colpevole e ne condivide sogni e talenti. Nicole Kidman torna all\’eccellenza e a sembianze umane. Allo sguardo di Aaron Eckart si può appendere ogni ruolo. Ci sono inviti sgraditi, troppi bambini altrui, una sorella incinta, abiti usati, video da riguardare per cancellare il dolore (o viceversa). E c\’è la lite in salotto dove duellano sensibili dialoghi. L\’ottimo sceneggiatore di “Robots” offre il suo testo teatrale al regista che (si) esaltò transgender in “Hedwig” e intonò l\’inno degli States nel trenino omosex di “Shortbus” (popper-corn movie). Cosa ne esce? Un\’opera densa che commuove senza ricattare. Il passato come una pietra in tasca che pesa ma non (ti) affonda. Nulla potrà più essere bello, ma qualcosa ancora (ci )sarà.

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GIANNI E LE DONNE

Grazia che vince non si cambia. Dopo il successo di “Pranzo di Ferragosto”, Gianni Di Gregorio ripropone se stesso, la propria garbata sensibilità, i suoi vecchi (splendida parola) le cui debolezze senili non hanno mai sapore di vergogna o di antiche note di Baglioni. E\’ un pensionato 60enne che vive assecondando le commissioni della moglie, i vizi della figlia studentessa (davvero sua figlia) con fidanzato sfaccendato, del suo cagnetto, del cane immenso della bella vicina e – soprattutto – i capricci della madre che gioca d\’azzardo, è generosa solo con la badante e gli fa evaporare l\’eredità sotto il naso: la 95enne Valeria De Franciscis, di nuovo strepitosa. Un amico lo induce a goffi tentativi erotici per liberarlo dal male della solitudine, lui colleziona tenere brutte figure che si fermano un bagliore prima della retorica e un attimo prima della condanna all\’eterna malinconia (Avati) mentre raggi di sole tramontano tra le foglie (). Con le borse sotto gli occhi e nessun talento in tasca, maschera che non è mai macchietta, Di Gregorio resiste agli effetti sulla trama di ecstasy e Viagra grazie al garbo umoristico che fu di Walter Chiari, Gino Bramieri e di altri galantuomini in bianco/nero. Recuperateli, sia benedetto YouTube.

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VI PRESENTO I NOSTRI

I Fotters hanno fatto onore al cognome (ahah) sfornando due gemelli: una ragazzina sveglia e un marmocchio che ama le lucertole e vomita lasagne a getto di drago addosso a babbo Ben Stiller. Inutile dire chi preferisca il nonno che odia i rettili perché in Vietnam un geco gli ha fatto le uova nell\’orecchio (ahah). Robert De Niro è proprio lui, non un omonimo: il grande attore nato a New York 67 (sessantasette) anni fa, si esibisce con le mutande \’in tiro\’ causa Viagra, si fa siringare il pene dal genero (il moccioso spia e riferisce) e naufraga nella vasca delle palle colorate al luna park. Bella metafora. Nonna Barbra Streisand inneggia ai condom canterini, nonno Dustin Hoffman sbava nel flamenco, Jessica Alba si chiama Andy Garcia ma non ha la barba (ahah) e dilata con abilità il deretano di un nero obeso in ospedale. Owen Wilson mette il naso nel buddismo. Ben Stiller tiene conferenze su come migliorare l\’afflusso di sangue al membro e c\’è una spassosa citazione de “Il padrino”, ma la traduzione vanifica lo squisito gioco di parole tra Godfather e Godfocker. Sono quei bravi ragazzi delle star di Hollywood che si sputtanano allegramente nel terzo capitolo di una serie deprimente. Campione di incassi in patria e presto anche nel Bel Paese dove volgare e mazziato è solo chi bestemmia sui campi di calcio e in tv. Ahah. Auguri.

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chiapposi VIAGGI DI GULLIVER

Per fare colpo sulla giornalista Amanda Peet, uno sfaccendato si finge intrepido viaggiatore e viene spedito alle Bermuda. Doppiamente vittima di un triangolo, è travolto dall\’oceano in tempesta e si risveglia a Lilliput tra gli omini che prima lo temono e poi lo eleggono loro paladino. Sbagliano, perché lui è un vile senza fegato sopra le Converse e gli shorts orrendamente shorts. Ma saprà riconquistarli. Ovviamente, il Gulliver di Jonathan Swift – un signor scrittore irlandese che usò il personaggio con spietato spirito critico nei confronti delle istituzioni del suo tempo (1715) – è solo un nobile spunto per innescare il consueto fantasy a fantasia zero che shakera Shakespeare, Cyrano e i Transformers quando non sa più dove andare ad annoiare. Ma dalla comicità rock di Jack Black – punk/rock, visto che irrompono i Kiss e The Jam – ci si aspetta comunque che giganteggi in sbarcate rivincite galvanizzando l\’elegante formicaio. Macché. Ciclopiche cadute di ritmo, divertimento minuscolo, citazioni cinematografiche autoreferenziali (Universal) e il consueto 3D posticcio che quasi nuoce ai sontuosi palazzi e ai lindi colonnati da fantamondo in miniatura. Un regista bravo fin dai titoli di testa a Manhattan, si lascia risucchiare dalle chiappe del suo protagonista in versione Umberto Smaila nerd.

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ANOTHER YEAR

Periferia di Londra, una coppia sui 50 invecchia coltivando il proprio collaudato affetto in cucina, in giardino, in un orto urbano. Non sono belli, nssuno qui lo è, nemmeno l\’orto. Tom è geologo, Gerri psicologa. Lui \’scava\’ buche, lei cervelli. Ma il loro cartone è animato dalla serenità: un\’oasi assalita da zombie vittime del virus della solitudine. Una collega, molesta oltre i limiti dell\’imbarazzo, ha bisogno di esistere almeno nei racconti altrui e corteggia prima il figlio e poi il cognato dell\’amica. Un old friend odia i giovani perché non lo è più. Il fratello vedovo è un totem levigato da chissà quale nulla. Il nipote è solo rabbia che sa di rimorso. Tutti bevono in modo smodato: chi per dimenticare, chi per ricordare, chi per sopravvivere. Quattro fine settimana in quattro stagioni: dense pause rivelatrici di segreti e bugie, dialoghi british a caccia di un raggio di solidarietà. Come nel teatro dell\’assurdo, il ridicolo nasce dalla disperazione. Mike Leigh tesse cinema spoglio, ricchissimo di umanità. Nulla è più difficile da recitare di una sbornia: qui un intero cast deglutisce eccellenza. Imelda Staunton (fu Vera Drake) subisce lo stetoscopio e l\’analista che frugano nell\’ostinato pudore della sua rassegnazione. Si fondono tristezza, speranza e abitudine. Capolavoro.

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AMERICAN LIFE

Verona è una trentenne incinta di sei mesi: non è bella, forse non lo è mai stata. Burt è uno spilungone con barba e andatura sbagliate (tipo David del GF) che fa sesso goffo per aggirarle il pancione: calzini bianchi e discorsi maldestri su . Lui vuole sposarla, lei no. Sono male assortiti e senza un vero alloggio. Ma si amano davvero. Quando i genitori di lei annunciano che si trasferiranno in Belgio affittando la casa (ad altri), la coppia – straordinari attori che vengono dalla tv – si avventura on the road alla ricerca di quella che è stata la parola chiave sia del film più amato della prima metà del 900 (“Via col vento”), sia di quello più amato della seconda (“E.T.”). Una Casa. Un nido. Sono fragili, hanno paura di essere dei losers, degli sfigati. Ma tutti gli altri sono mostri. Incontrano amici e parentastri frustrati in famiglia: chi adotta figli all\’ingrosso, chi li mette all\’ingrasso, chi tradisce il partner con la mente, chi con l\’ipocrisia, chi con la rassegnazione. Maggie Gyllenhaal (da urlo) vive e fa sesso in overdose new age. George Harrison, Velvet Underground, Bob Dylan (e Clint Eastwood!) infondono note di speranza amarognola. L\’inglese Sam Mendes, dopo “Revolutionary Road”, continua a distillare l\’amaro dell\’american beauty.

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