Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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IL BISBETICO DOMATO

Adriano Celentano, sempre felicemente a suo agio in panni agresti (ricordate “Serafino”) è il burbero protagonista di uno dei più strepitosi successi al botteghino del cinema italiano anni 80. Elia, un possidente della campagna lombarda, nemico giurato delle donne e dei fastidi che arrecano alla vita sana, si vede piombare in fattoria Ornella Muti alla quale si è rotta l’automobile e che gli chiede ospitalità per la notte. Affascinata dal bizzarro comportamento del misantropo, la ragazza fa della sua conquista un punto d’onore, ma poi si innamora davvero. L’orso di campagna cederà all’estenuante corteggiamento della bella di città solo dopo averla ‘rieducata’ a una visione ecologica della vita. Alla morale verde si può anche non credere, ma il film ha ritmo, simpatia, musiche gradevoli e una comparsata di Jimmy il Fenomeno.

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ADELE E L\’ENIGMA DEL FARAONE

A Parigi, nel 1911, cosa fa agitare (e soffrire) all’unisono un decrepito scienziato e uno pterodattilo neonato? Lo scoprirà la scrittrice/archeologa reduce da un’avventura egizia modello Gardaland e con una sorella da ‘resuscitare’ dopo uno stramaledetto incidente sul campo da tennis. Un uovo vecchio di milioni di anni, un fumetto di tre decenni fa ambientato nella Belle Epoque, le mummie redivive nel Louvre di Belfagor: Luc Besson si cala nel fantasy giocando con la miscela dei tempi in un’opera bizzarra che trotta abilmente nell’ironia e sbanda inevitabilmente nell’abusato già visto. L’eroina non è un Indiana Croft: la brava Louise Bourgoin ha cappello piumato, stola/guinzaglio, figurino ambizioso, poca confidenza coi cammelli e piglio civettuolo (un suo quasi-nudo fa ribollire i sarcofagi). Va quasi perduto il pungente femminismo retrò di cui l’ha dotata Jacques Tardi, ma la fanciulla è a suo agio tra citazioni, anacronismi e zombie del Nilo in bombetta sulla Senna. Besson ha i meriti di sempre: sdolcinato quando non te l’aspetti, funebre quando serve, adulto coi piccoli, moccioso con i grandi. E il cast fa faville: godetevi l’irriconoscibile kattivo Mathieu Amalric di “Quantum of Solace” e “Lo scafandro e la farfalla”. Prossimo appuntamento sul Titanic.

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sopravvalutatissimo CATTIVISSIMO ME

Il grassoccio, pelato e senza collo Gru non è cattivissimo, né spaventoso (gruesome), né spregevole quanto vorrebbe il titolo originale (“Despicable Me”). E’ un megalomane finto/sadico che dalla sarcastica vecchia mammina ha ricevuto un goffo naso a punta e una valanga di frustrazione. Schernisce i bambini, raggela la gente in fila, ha una pelle di panda e un divano/dinosauro in salotto, ma è solo in malavitosa attesa sentimentale delle orfanelle giuste per sciogliergli il cuore. Quando il suo rivale in furfanteria cosmica ruba una piramide (lui si è fregato la Statua della Libertà, ma quella di Las Vegas), decide di mirare alto: la luna. Una (nota) banca non gli finanzia il megafurto, ma dalla sua ha i tecno-casinari minons: gialli tirapiedi occhiuti, nipoti degli Oompa Loompa e pensati per l’orbita del merchandising. Razzi, squali e uno scienziato decrepito. Gag giocoliere. Debiti immensi con “Gli Incredibili” e il nostro Bruno Bozzetto (il ricco nemico nerd quattrocchi col caschetto). Grande entusiasmo della critica, ottimi incassi americani e nostrani, ma “Cattivissimo me”, primo cartoon targato Universal, è un filmastro simpatico e nulla più. Macchinoso nel ritmo, abile nell’usare il 3D per poi sfotterlo nei titoli di coda. DreamWorks e Pixar restano su un altro pianeta.

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UNA VITA TRANQUILLA

E’ ciò che si è ‘guadagnato’ un cuoco italiano in Germania: una bella moglie gelosa, un figlioletto biondo e un ristorante ben avviato nella foresta, dove serve banchetti con granchio e cinghiale a fare a pugni nel menù, . Ma quando due scugnizzi arrivano a sorpresa, provenienti da brutti mandanti e dal suo pessimo passato, il cinghiale diventa lui. Prova affetto e curiosità per il figlioccio dei tempi dei morti ammazzati, ma se ne sente minacciato, lo vede replicare le sue gesta, è costretto a riprendere il piglio feroce dell’uomo d’azione. Per difendere la sua vita tranquilla, se ci riuscirà. Toni Servillo, avvolto in espressioni e musiche collaudate, cucite come abiti sulla sua teatralità in perenne trasferta azzeccata al cinema, alza la pupilla sospettosa all’estremo angolo dell’occhio: è il segnale che il cinghiale lascia la tana (e una lingua, e una vita) per un\’altra: dall’italiano, al tedesco, al napoletano. E viceversa. L’idea funziona, l’interpretazione pure, il film non sempre. Facendo suo un soggetto vincitore del Premio Solinas Storie per il Cinema (2003), Claudio Cupellini illustra ispirato il precipizio nel cupo disagio, ma soffre i cambi di tono, le accelerazioni e gli scatti a vuoto in una simpatia non necessaria.

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IL RIFUGIO

Due corpi abbracciati nella camera da letto semivuota di un signorile appartamento parigino. Si amano e si bucano l’un l’altra. L’impazienza della droga surclassa quella del sesso. La quiete dell’oblio sembra estasi fraterna. Solo la donna si risveglierà. Dal coma e incinta. Solo François Ozon, regista incostante ma dotato di tocco d’Autore che sa rendere nobile la cartapesta dei sogni, della maternità e del dolore (“Sotto la sabbia”, “Angel”, “Il tempo che resta”), poteva riuscire a trasformare una scena tanto drammatica in un quadro rinascimentale. Solo lui, gay e parigino, poteva riuscire a rendere accattivante lo stereotipo del gay parigino in trasferta sull’oceano (il fratellino del morto) che vince la diffidenza della sopravvissuta e la riporta alla vita, al dialogo, alla musica, alla nostalgia, a letto. Isabelle Carré, realmente in avanzata gravidanza, è splendida in primo piano e negli specchi: doppie inquadrature come cornici dell’animo. Louis-Ronan Choisy è un azzeccato efebo in via di maturazione. Lei evita il sole e le chiese, a lui piacciono. Lei non sa se saprà essere madre, lui non è stato un vero fratello. Molto cast e qualche acuto da dimenticare, ma tanta natura e tanta naturalezza tra i protagonisti. Poi, un finale sensatamente umano.

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LONDON RIVER

Il 7 luglio del 2005 le bombe dei terroristi islamici insanguinarono Londra. Brenda Blethyn, adorata da queste righe dai tempi di “L’erba di Grace” (passione confermata in “Segreti e bugie” e “Orgoglio e pregiudizio”), è una vedova che, preoccupata dal silenzio della figlia e da un cellulare sempre spento, lascia l’isoletta inglese dove vive tra asini e lattughe per cercarla nella capitale. Londra è un città che non (ri)conosce: multietnica da sempre, ma ai suoi occhi oggi solo straniera, estranea, minacciosa. Monumentale bravura di aneliti e di sguardi mentre percorre la via crucis degli ospedali e i muri (e le vetrine) del pianto con le foto dei missing. Incontra, in ogni senso, l’uomo nero: il padre di un giovane di colore che manca a sua volta all’appello: è il ragazzo di sua figlia, insieme studiavano l’arabo. I due sono vittime? Terroristi? In fuga d’amore? La donna è , l’uomo musulmano. Lei ha allevato sua figlia da sola, lui quasi non conosce il suo: nella vita ha saputo proteggere gli alberi, non il proprio seme. Lui ha lunghe dita nodose, come le sue trecce, come il suo bastone. Lei ha mani febbrili e diffidenti, bisognose di conforto e sigarette. Si stringeranno per un attimo. Ci saranno una panchina, una spalla, un salmo in comune.

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LO SPECIALISTA

L’idea era quella di mettere insieme sotto la doccia (anche se la scena è riuscita piuttosto asessuata) i due corpi più belli e meglio pagati di Hollywood (1994). Sono quelli di Sly Stallone, nei panni di un ex agente della Cia specializzato in ogni cosa possa esplodere (un cult la sua orrenda casetta tecnologicamente superprotetta), e di una Sharon Stone ossessionata dalla vendetta: i suoi genitori furono fatti uccidere sotto i suoi occhi di bambina da una famiglia di malavitosi latinoamericani. A dispetto dell’intervento dell’ex collega incattivito James Woods, Rambo porta a termine la vendetta per conto della bionda e può goderne la meritata riconoscenza. Dirige un regista peruviano parente dello scrittore Vargas Llosa, nel trionfo bombarolo eccelle solo Rod Steiger.

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A TEMPO PIENO

Ma quale classe sociale andrà mai in paradiso, se anche i manager possono essere licenziati e devono vivere di bugie, truffe agli amici e loschi espedienti per non perdere, dopo il lavoro, anche la faccia? E lo sbaglio non sarà puntare tutto sul motto ‘laboro ergo sum’, mettendo la propria esistenza al servizio delle pressioni della società e trascorrendola in ambienti asettici che anestetizzano i contatti umani? Basato su un episodio della cronaca francese (che però si concluse in tragedia), un film che setaccia con spietatezza l’arco delle miserie e delle risorse umane (titolo d’esordio del regista Laurent Cantet, che sempre di licenziamenti si occupava). La cine-sociologia indaga cauta, il finale non lascia scampo. Meritatamente premiato a Venezia.

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ROCKY

Tre Oscar e troppi seguiti per un ottimo film di sudore e volontà: azzeccata operazione costruita sul corpaccione e sul volto nebbioso di un giovane Stallone, abile ibrido tra saga sportiva e sana morale degli affetti stimolanti. Rocky Balboa è un perdente tutto muscoli che campa recuperando crediti di mala. Sogna di fare la boxe che conta e ama (corrisposto) Talia Adrianaaa Shire, vitaminica e dopante come certi amori sanno essere. La fortuna bussa alla sua porta quando il campione dei pesi massimi rimane senza sfidante e gli offre di incrociare i guantoni in un match che dovrebbe essere mera formalità. La forza di volontà farà miracoli dando fiato a corse spasmodiche su sfondi architettonici (Philadelphia si presta compiaciuta) e al martellante incalzare di una memorabile colonna sonora: “Gonna Fly Now” ancora oggi mette ko il tempo e scatena la malinconia.

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THE TOWN

Nel sobborgo di Boston , quattro amici dal destino criminale segnato alzano il tiro: forzieri ripuliti da contante, fibre e dna (CSI insegna), abili cambi d’abito e veicoli, assalto finale alla Cattedrale (lo stadio dei Red Sox, ovviamente). Ostaggio imprevisto: la direttrice bendata Rebecca Hall che poi se lo sogna la notte finché non comincia a dormire con Ben Affleck che la pedina per controllarla e subito se ne innamora in lavanderia. Il tatuato quasi fratello e quasi cognato, l’ottimo Jeremy Renner di “The Hurt Locker”, sente puzza di abbandono, ma è una testa calda che sa che finirà freddata. Il detective Jon Hamm (“Mad Men”) morde gli stinchi alla banda ormai nel vortice dell’avida frenesia e di ricettatori bastardi. Affleck è un ottimo (co)sceneggiatore fin dai tempi di “Good Will Hunting”: qui sa gestire infanzie strappalacrime, madri malaccorte, un babbo in galera per cinque vite, la tossica gelosa col popper nel succo di frutta. Migliora nella regia rispetto all’inesploso “Gone Baby Gone”, sfoggiando un abile sguardo classico che fa il palo (dall’alto) sull’amata Boston. E sa che per pepare gli inseguimenti non bastano testacoda a mitraglia, servono le suore kattive.

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