E’ ciò che si è ‘guadagnato’ un cuoco italiano in Germania: una bella moglie gelosa, un figlioletto biondo e un ristorante ben avviato nella foresta, dove serve banchetti con granchio e cinghiale a fare a pugni nel menù, . Ma quando due scugnizzi arrivano a sorpresa, provenienti da brutti mandanti e dal suo pessimo passato, il cinghiale diventa lui. Prova affetto e curiosità per il figlioccio dei tempi dei morti ammazzati, ma se ne sente minacciato, lo vede replicare le sue gesta, è costretto a riprendere il piglio feroce dell’uomo d’azione. Per difendere la sua vita tranquilla, se ci riuscirà. Toni Servillo, avvolto in espressioni e musiche collaudate, cucite come abiti sulla sua teatralità in perenne trasferta azzeccata al cinema, alza la pupilla sospettosa all’estremo angolo dell’occhio: è il segnale che il cinghiale lascia la tana (e una lingua, e una vita) per un\’altra: dall’italiano, al tedesco, al napoletano. E viceversa. L’idea funziona, l’interpretazione pure, il film non sempre. Facendo suo un soggetto vincitore del Premio Solinas Storie per il Cinema (2003), Claudio Cupellini illustra ispirato il precipizio nel cupo disagio, ma soffre i cambi di tono, le accelerazioni e gli scatti a vuoto in una simpatia non necessaria.
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