Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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CHE BELLA GIORNATA

Un pugliese milanesizzato scala i gradini della security e va a fare danni prima all\’arcivescovado, e poi tra le guglie del Duomo. Una giovane magrebina finge di studiare arte per compiere un attentato, ma presto si intenerisce di fronte al devoto idiota che toglie una tela dal museo per portargliela in Brianza (crede l\’estasi di Santa Teresa sia dovuta alla droga e la valuta meno di un graffio sulla Porsche). Il problema di Zalone è che fa ridere. Ri-de-re. E ridere spesso: almeno otto ghignate di pancia, contro i sorrisi di Aldogiovanniecc, gli sbadigli in Sudafrica e il triste pupazzo di neve di Boldi. Quindi non gli si può dire nulla. Né che troppi tempi morti sfociano in battutacce, né che \’si mangia\’ gli ottimi compari degni di antiche comiche: Tullio Solenghi, Rocco Papaleo, Ivano Marescotti, Luigi Luciano (e CapaRezza!). Invece lui può dire tutto: che l\’Islam è un rischio e il sud un marchio, che in Italia non conta studiare ma essere raccomandati, che tonache e divise tradiscono gli ideali, che in Iraq si va per i soldi e che siamo tutti integralisti di religioni, usi e costumi villani. Può cantare che . Perché sa sterzare ogni serietà in sberleffo e surfare tra gag e assonanze. Comici da record si nasce. E lui – Checcosabella– lo nacque.

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HEREAFTER

Non è un capolavoro. Tocca alla losca cometa di queste righe sporcare di realtà il primo cine-presepe del 2011, celebrato in soave coro belante dagli adoratori-a-prescindere del buon pastore Eastwood. Che oggi è un Autore, un Classico, anzi un meraviglioso autore neo/post classico che ha firmato film magistrali: “Mystic River”, “Million Dollar Baby”, “Gran Torino”, “Changeling”, “Lettere da Iwo Jima” (su tutti). Ma “Hereafter” non è un capolavoro. Come non lo era “Invictus”, nobile pellicola pedante, osannata ieri da chi oggi la rinnega. Old Clint non invecchia, regna sull\’immagine. C\’è più suggestione nei suoi effetti speciali quasi elementari (lo tsunami) che in ore e ore di coglionate catastrofiste. C\’è più miracolo nei raggi di luce con cui accarezza miseri arredi (la casa dei gemelli con madre tossica) che in tutta la fuffa tv natalizia. Ma “Hereafter” non è un capolavoro, e Matt Damon è solo l\’ennesimo sensitivo che vive il suo dono come una maledizione. E\’ una buona opera, un\’opera buona che Eastwood tenta invano di fare sua – scrive Peter Morgan di “The Queen” e “Frost/Nixon”, produce Spielberg – smussando con abile tocco il soprannaturale e assecondando incroci che evocano fiaba (Dickens) e realtà (gli attentati a Londra) con grandi speranze di commozione terrena nel centro del mirino. Tutto è lieve, dosato, antico, foscoliano. Anche la retorica.

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PRECIOUS

Preziosa di nome ma non nel fisico, una 16enne nera extra-extra-large ha il muso perenne: vive ad Harlem con la madre obesa che sta spiaggiata davanti alla tv e la tratta da serva, ha una figlia con la sindrome di Down, frutto dello stupro del padre (sieropositivo) ed è di nuovo incinta (altro stupro). I ragazzi la sfottono crudeli. Quando è sola, si sogna una star: elegante a pois, disinvolta, invidiata, sorridente mentre sfugge alle fiamme dei ricordi. E\’ quasi analfabeta, destinata al sussidio, ma le piace la matematica. In una scuola per giovani disagiati, nuovi amici e una nuova insegnante la spingeranno a conquistare una sofferta dignità di donna e di madre. Storia dolorosa, ma percorso segnato da una sceneggiatura ottimista/già vista e da una regia che si crogiola in ralenti e foto parlanti: nonostante l\’ambientazione negli anni 80, è il perfetto film dell\’era Obama: la ragazza infelice, che scruta con sguardo lesso Martin Luther King (e Sophia Loren) in tv, galleggia tra scogli ferocemente da cinema, disposti e sminati con cinica arte. Il film di Lee Daniels morde davvero solo quando va in zona Spike Lee: tono e monologhi sboccati che hanno portato all\’Oscar la rabbia oversize di Mo\’Nique. Lenny Kravitz e Mariah Carey fanno ebony and ivory sulla cine-tastiera compiaciuta.

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CYRUS

Quando vediamo l\’ottimo Jonh C. Reilly sorpreso dalla ex moglie mentre si masturba davanti al pc con le cuffie in testa, è forte la paura che zampilli l\’ennesima commedia yankee su impacciati bamboccioni di mezza età. Invece uno dei meglio attori in circolazione oltreoceano, e una regia che ha garbo comico/sentimentale, danno spessore a un triangolo ad alto rischio: lui (uno Shrek nell\’approccio a se stesso e al prossimo), lei (bisognosa di tenero orco) e il figlio 21enne di lei: possessivo dietro le pannose sembianze di cocco di mamma, un geloso sovrappeso con velleità da eco-deejay. Il ragazzo sembra accettare il nuovo \’babbo\’, poi è un crescendo di porte non chiuse, piccoli furti, abili ripicche, gustose provocazioni, finti attacchi di panico. Segue contrattacco contraffettivo. Ai fratelli Duplass basta uno scatto di primo piano per connetterci alla psiche dei personaggi. Reilly è così bravo da cavarsela da ogni imbarazzo: anche quando lo beccano a fare pipì in giardino durante una festa in cui si lancia all\’accalappio, armato di Vodka/Redbull e Human League. Marisa Tomei fa terno: eccellente come in “The Wrestler” e “Onora il padre e la madre”. L\’extralarge Jonah Hill, che viene da “SuxBud”, conferma l\’ottima prova di quando fu aspirante battutista per Adam Sandler in “Funny People”.

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BHUTTO

Documentario
Benazir significa ‘senza paragoni’. E Benazir Bhutto unica al mondo lo fu davvero: primo ministro a 35 anni e prima donna a guidare il governo di un paese mussulmano. Nacque nel 1953, in Pakistan, da una famiglia occidentalizzata che comunque osservò tre giorni di lutto per la nascita di una femmina: padre ambasciatore all’Onu, elegante madre iraniana che guidava (!) l’automobile. La vediamo studente ad Harvard, e poi determinata capopopolo, in un documentario che si dipana come una coinvolgente epopea politica e famigliare: longilinea, occhiali troppo grossi, velo incostante e un marito scelto solo col cervello, ma che la amò con passione. Tre volte nella polvere del carcere o dell’esilio, tre volte sugli altari di una nazione in cui comanda solo l’esercito. Diceva: . Fu ammazzata per volontà di un kamikaze, il 27 dicembre 2007.

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I FIORI DI KIRKUK

Due guerre fa, l’emancipata dottoressa Najla torna da Roma in Iraq, dall’amato Sherko. Trova anche Mokhtar, che la desidera, anzi la esige. Il primo e curdo, il secondo arabo come lei. Saddam ha dato il via alla polizia etnica in Kurdistan: per tutti e tre il sentimento sarà uno scoglio tragico, come è tipico del cinema mediorientale che nell’amore vede l’anticamera non del sogno coronato, ma della tragedia inevitabile. Un regista curdo (iraniano), trapiantato in Italia, adatta per il grande schermo il romanzo in cui aveva narrato vicende simili a molte in cui è stato dolorosamente immerso. Il melodramma è sempre in agguato, ma lo sguardo è sincero: il cinema si rivela come l’arma necessaria di un uomo che non ne vuole conoscere altre.

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IL RAGAZZO DI CAMPAGNA

Versione aggiornata della favola del topo di campagna che va a far visita a quello di città e si mette nei guai per troppa ingenuità. Qui il campagnolo rustico è Renato Pozzetto che si trasferisce a Milano dal cugino Massimo Boldi, manigoldo di mezza tacca. La maschera spaesata di Pozzetto si tuffa con naturalezza nel pesce fuor d’acqua alle prese con il luogo di dannazione. Tipico film scanzonato anni ’80: più facile farsa che comicità. Ma ci sono una Milano in dissolvenza nel business e una tenerezza in dissoluzione nella tv da spiare e compiangere.

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LE AVVENTURE DI SAMMY

Cinquant\’anni della travagliata vita di una tartaruga di mare, dalla faticosa uscita dal guscio (in ogni senso), alla fuga dal becco di un gabbiano; dalla conoscenza del suo amore caduto in volo (tartarughina con nome da conchiglia), al loro perdersi e ritrovarsi attraverso gli oceani, seguendo le gomene dell\’ondoso gioco di un destino da favola ecologista che balena sempre al momento giusto. Il film del belga Ben Stassen (che si identifica col gatto sofisticato) è simpatico, divertente, ben musicato con note collaudate, coraggioso nel proporsi esclusivamente al cuore del pubblico giovanissimo riducendo al minimo i consueti ammiccamenti adulti. Ma c\’\’è spazio per la denuncia dell\’inquinamento dei mari ad opera delle petroliere, per un Natale hippy con gli umani che finisce a manganellate, per gli sforzi generosi di una clinica dove si \’riparano\’ animali difettosi. Ovvio che la trama tifi contro la selezione naturale, ma non mancano impanicate lentezze e attimi dii eco-verismo che sarà giusto spiegare ai nostri cuccioli. La parentela con la Sirenetta e Nemo è più automatica che voluta (vedi la scena della rete da pesca), il vero intento è un coinvolgente inno all\’istinto che il 3D amplifica mareggiando con insolita meraviglia, tra meduse e paracadute in suggestiva immersione.

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CINEPANETTONI? OGGI NO, GRAZIE

Vado alla rinfusa, ma sarò sincerissimo.
I cinepanettoni non organizzano da anni l\’anteprima per la stampa (ma Mereghetti mi dice che quest\’anno faranno eccezione). Se ne fregano e, dal loro punto di vista, fanno bene. Non gli serve il giudizio dei critici: né per incassare, né per migliorarsi. Fanno un prodotto di livello pessimo che si è trasformato in appuntamento fisso per il Santo Natale Italiano: una tradizione trash collaudata, una brutta luminaria che tutti guardano dal basso in alto (o viceversa) sentendosi all\’altezza.
Vacanze di Natale (1983), diretto discendente di \”Sapore di mare (1982), era un ottimo mix di note comiche, musicali e nostalgiche. Aver dissipato queste fondamenta sane per assecondare, anzi creare, il peggio del malcostume nostrano, è un cine-reato per il quale i vanzina meriterebbero l\’esilio insieme ai loro neri parenti (le minuscole sono d\’obbligo).
Non vado a vederli da un decennio, il trailer basta e avanza. Invece di unirmi al pubblico pagante (in ogni senso) mando un giovane lettore di CITY, diverso ogni anno (leggere per credere), e poi riporto i suoi gridolini con qualche considerazione a lato.
Al di là dei giudizi di demerito, un motivo per cui evito i cinepanettoni è che mi piange il cuore nel vedere sprecato (seppur strapagato) un talento vero come quello di Christian De Sica, figlio d\’Arte in ogni senso: grazia innata, talento vocale, perfetti tempi comici dell\’era felice in cui la commedia all\’italiana era fatta di maschere e non di macchiette.
Io, a Natale, rivedo Stanlio Ollio con la pianola e Chaplin in ogni situazione (quello vero, non Benigni). Roba nobile di prima dei cinepanettoni.
Ho avuto un\’infanzia felice.
Alessio Guzzano

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UN ALTRO MONDO

Un 28enne romano, ricco, sfaccendato, belloccio ma ingrassato, riceve una lettera dal padre che lo abbandonò ai giardinetti e lo vuole al suo capezzale a Nairobi. Parte sulle ali del rancore che sfocia in pietà. Arriva tardi, ma c\’è un amabile fratellino nero di cui occuparsi (il bravo Michael Rainey, che viene da un video di Tiziano Ferro). Perché Muccino junior voglia così tanto essere lui il fratello maggiore di un fratello minore, così tanto da inventarsi la suprema cavolata che qualcuno possa essere vincolato al ruolo di tutore a sua insaputa, è un problema che lasciamo al dottor Freud e ai signorini del gossip. Il giovanotto torna dal Kenya maturato e responsabile. Che anche la superficialità della dolce vita possa essere descritta con superficialità e che la retorica sia l\’antitesi della commozione, sono idee che non sfiorano il poco-regista Muccino junior, che co-sceneggia con Carla Vangelista, già sua complice in “Parlami d\’amore”. Randellano a colpi di voce fuori campo, scene madri, troppi figli, verità da cioccolatino enunciate come parabole dei Monti Parioli. Il mal d\’Africa di Muccino (sempre junior), Maurizio Crozza lo chiamerebbe forse . Sarà anche sincero, Silvio junior. Sarà se stesso. Ma il Cinema è precisamente saper essere Altri.

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