Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
SENZA ARTE NE’ PARTE

Un Premiato Pastificio Pugliese sceglie di meccanizzarsi. Tre operai in diverso (ma identico) stato di necessità, insistono per essere riciclati come custodi dal loro ex (ma eterno) ‘padrone’ che investe nell’arte contemporanea. Mentre montano la guardia alla “Bomba a mano” e al “Baco da setola” (opere vere, di Pino Pascali), a una “Matrioska” di Berlusconi (vera, di Michele Giangrande), al “Uovo 1960” e alla “Merda d’artista 1961” (vere, di Piero Manzoni) e alle tele tagliate di Lucio Fontana (verosimili), i soliti noti partoriscono l’audace colpo di riprodurre in serie quelle che a loro sembrano cianfrusaglie di facile fattura. Hanno le pezze al culo, madri malate, figli piccoli, mogli precarie, fratelli guappi, uno ha la pelle scura, uno , riusciranno i nostri eroi/macchietta a truffare i collezionisti e a far trionfare la commedia all’italiana? Giuseppe Battiston (memorabile in “Notizie dagli scavi”) e Vincenzo Salemme (sempre diligente quando non si dirige da sé) danzano uno strepitoso valzer luddista ai danni della fabbrica che li ha scaricati. Poi galleggiano, col simpatico Hassan Shapi di “Lezioni di cioccolato”, nel Salento caro ai colpi d’occhio di Sergio Rubini. Ma l’artista/regista Giovanni Albanese ha cognizioni e modelli più alti del risultato.

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FOUR LIONS

Si può ridere di un gruppo di fondamentalisti cialtroni che litiga sul modo migliore di farsi esplodere ai danni degli infedeli? Si può. Secondo Chris Morris, autore di documentari veri e (soprattutto) falsi, demone provocatore della tv inglese, addirittura si deve. Per disinnescare la bomba del fanatismo cogliendo l\’inevitabile lato grottesco di ogni tragedia, ci ricorda che Mohamed Atta, uno degli attentatori dell\’11 settembre, si impappinava durante le riprese del video fatidico e, accusato di fare troppo rumore in bagno, accusava gli ebrei di aver prodotto porte troppo sottili. Qui ogni futuro mujaheddin si sente più \’stile jihad\’ degli altri, soprattutto l\’occidentale convertito all\’Islam che spaccia per la sciagurata esplosione di un confratello nei pressi di una pecora. Qualcuno è confuso e va convinto con psicologia surreale che miscela abilmente sacre filosofie e umorismo british (, ), qualcuno rischia di essere fucilato vestito da struzzo (), qualcuno va in Afghanistan per l\’addestramento e nuoce mortalmente alla causa (e a Bin Laden). Riz Ahmed viene dal film di Winterbottom su Guantanamo, Nigel Lindsay dal nobile teatro britannico. Corvi e dialoghi esplosivi.

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IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA

dice il ragazzino biondo alla parrucchiera che ha (troppo) di colpo deciso di prendersi cura di lui nei fine settimana. Intende a occhi chiusi. Con sguardo ostinato e pedali sempre all\’attacco, cerca il padre che l\’ha lasciato in un istituto cambiando casa e numero di cellulare. Ma lui non vede il rifiuto: si divincola, bussa a vetri, scala muri reali e metaforici. Quando ritrova l\’ancor più biondo Jérémie Renier, già genitore non all\’altezza che in “L\’Enfant” vendeva il suo neonato, ne imita i gesti in una magistrale scena di apprendistato frustrato: una cucina, un mestolo, un estraneo che può offrirgli solo una patatina alla paprika. Il bimbo non capisce, incassa. Sbanda tra amicizie sbagliate, come Pinocchio. Mente alla sua Fata Turchina e fa di un\’altra cucina il teatro di una ribellione quasi horror. Semina gli zecchini nel campo sbagliato, poi esce con le ossa ammaccate – e dunque da ometto – da un losco bosco invitante. Non c\’era mai stata così tanta luce in un film dei fratelli Dardenne, fabbricanti di capolavori. Né sprazzi di musica. Né mazzate e sassate sempre (troppo) a segno. Né una protagonista famosa (Cécile de France, scelta e poi neutralizzata in un ruolo irrisolto). Né corse formative tra i cespugli cosi lontane dal crudo sentiero di “Rosetta”.

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THE TREE OF LIFE

Il western della Frontiera, la guerra (invisibile) nel Pacifico, una prua che svergina le Americhe in immagini sublimi: il cinema di Terrence Malick è sempre un magma penetrante, un mondo in espansione, l\’esperienza della creazione di coscienze. Qui va oltre e partorisce l\’intero cosmo: un Film-Big-Bang che segue la densa linea verde della linfa dell\’amore fino all\’Albero della Vita. Malick non è Kubrick, a cui basta un gesto tra scimmie per spiegare l\’intera evoluzione (maligna) della Storia. E non solo perché collassa in 140 minuti (di)vaganti, o perché fa un tracotante uso a drappo della musica classica che per Sir Stanley era un arazzo spazio/temporale, ma perché Malick è un Saggio Buono. L\’odissea di questo capolavoro a metà vola oltre i cancelli di ogni cielo e trova cascate, onde, girasoli, invocazioni, lava, meteore, dinosauri, una ferrea fede in un dio assente (ma c\’è un paradiso da “Hereafter” con tanto di Mano Nodosa…). Parte da Giobbe e ne esige la pazienza; lancia grida di dolore tra le foglie con voci che hanno echi struggenti, poi vola sul filo dell\’acqua sentimentalista di Nicholas Sparks; scava nelle parole care per trovarvi un Vasto Senso tra Grazia e Natura (Beckett, che è un saggio e basta, le lascia rimbalzare nella loro impossibilità di averne ancora uno). Tutto girato da dio, ma con un dio di troppo. Le geometrie della solitudine e del dubbio assalgono Sean Penn tra ponti e grattacieli e lo spingono a ricordare l\’adolescenza: padre severo che non si lascia chiamare \’papà\’ ma sa riflettere sulla vergogna (Brad Pitt, eccellente), madre satellite/buono, un fratello scomparso, l\’altro pure ma senza un perché. Cristalli di vita non ordinati, perle di un racconto terreno intenso. Erano solo il pretesto per arrivare alle Grandi Domande bollite dai geyser e al National Spiritual Geographic? Vabbè, ce lo siamo goduto. Malick dà. Malick non toglie. Malick esagera. Il dolore resta.

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SE SEI COSI\’ TI DICO SI\’

La meteora Piero Cicala cantò una sola estate anni 80: motivetto balneare, Ray-Ban, mossette idiote, megabottoni di madreperla, trionfo spazzato dalle tentazioni da autore. Fa il cuoco nella pizzeria pugliese della ex moglie (rancorosa) Iaia Forte, quando lo mandano a pigliare perché i Ricchi e Poveri hanno dato buca a “I migliori anni”, dove Carlo Conti interpreta se stesso, ovvero il Monotono Nulla. Ri-essere o non essere (mai più) un relitto pacchiano? Salutati il polpo che muggisce e il figlioccio che intenerisce, Cicala approda a un lussuoso hotel di Roma dove i fan in attesa (della Rodriguez) lo gelano subito: . Belen non è mai stata così bella: capelli da maschietto, lato b(en) esposto, seno offerto in vasca, gambe a forbice sul letto, passo capriccioso, occhio lucido: prima \’fatto\’ e poi commosso. Cavalca la propria onda sexy nel film e col film. Emilio Solfrizzi la incoccia per caso, la segue in Texas, si offre – stinto ma efficace – a un ruolo difficile: alla Sorrentino/Servillo, pensato da un Avati. Per andare dall\’Esedra alla Rai non occorre passare per via Veneto, ma Eugenio Cappucci, regista \’felliniano\’, la imbocca in ogni senso. Un giornalista, un festino, televisori a canale unico, marcette e toni da Dolce Vita. I migliori anni stonano.

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C\’E\’ CHI DICE NO

Il bravo giornalista Luca Argentero scrive solo su pubblicazioni di quartiere. La brava dottoressa Paola Cortellesi vive attaccata alla boa di una borsa di studio. Il bravissimo docente universitario Paolo Ruffini accumula lauree e specializzazioni rimanendo precario. E i loro affitti chi li paga? Intanto i raccomandati avanzano, sfacciati nei loro privilegi, orgogliosi (e nemmeno sempre) delle loro magioni. I tre Pirati del Merito mettono nel mirino chi ha soffiato loro il posto e gli danno il tormento: auto in fiamme, auto in piscina, giardini devastati, amanti simulate…Per non destare sospetti, attaccano l\’uno il nemico dell\’altro, come in “Delitto per delitto” di nonno Hitch. Ma le divise arrivano comunque. Molti vaffa e qualche dito medio – in perfetto stile Vasco, anzi Montecitorio – ma la commedia di Giambattista Avellino, regista di Ficarra e Picone, è forte nella morale quanto leggerina nella sottolineatura. Alla ricerca di una scorrevole forma piaciona, sfonda porte aperte con condiviso vigore e senza far davvero male a nessuno. Ma il cast dà il meglio, anche nel tentare – finalmente nel nostro cinema – una parlata comune (fiorentina). Il marchio di fuoco è affidato a Giorgio Albertazzi: .

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CON GLI OCCHI DELL’ASSASSINO

Una notte buia e tempestosa, un cappio in cantina, una donna cieca. Chi sta fotografando il suo suicidio forzato? La gemella si ostina in una disperata indagine tra ombre sinistre, mentre a sua volta è vittima della patologia degenerativa della vista. Il marito la accompagna diffidente in ambienti ostili: un paesello popolato da creature degne di Dylan Dog (è un complimento), un cimitero solitario, un lindo albergo allegro quanto un manicomio cecoslovacco (con sottosuolo in tinta). Una figura sfocata bracca la protagonista. E’ il giovane di cui non vediamo mai il viso e che diviene – una sparizione dopo l’altra – il suo unico punto di riferimento? Con la benedizione dark di Guillermo Del Toro, il catalano Guillem Morales tiene alta la qualità di suspense e inquadrature: la prima metà è un capolavoro, la scena nelle docce – l’intrusa finisce nel ‘vortice’ delle non vedenti fino a risultare lei quella con le percezioni fuori uso – è straordinaria nell’evitare il ridicolo acceso da pupille troppo spiritate. Belen Rueda, già protagonista dell’eccellente “The Orphanage” (recuperatelo!), si conferma la musa del (raro) paella/thriller che azzecca ogni macabro ingrediente, humour compreso. Qui funziona persino il flash usato come arma di fuga, già ridicolo ai tempi di nonno Hitch.

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UN PERFETTO GENTILUOMO

Quando sposi un\’epoca, sei destinato a rimanere vedovo in tutte le altre. E\’ ciò che capita a un giovane insegnante (aspirante scrittore) che sogna la Belle Epoque anni \’20: una Daisy a spasso col parasole ricamato a cui dichiarare il suo amore… e intimo femminile da indossare nei momenti erotici (Ed Wood, il – vedi film con Johnny Depp – aveva una passione tutta eterosessuale per i golfini d\’angora). A New York, trova casa dal bizzarro Kevin Kline, gigolo (sessuofobo) per vecchie ricche che lo portano a cene d\’alto bordo e a svernare a Miami. Si dipinge le calze sulle caviglie, adora le palle di Natale e lancia a breve distanza frasi finto/ciniche e flatulenze. Si contorce ogni mattina a suon di musica classica (autoparodia – si spera – di “In & Out”) e insegna al suo protetto come imbucarsi all\’opera, danzare in spiaggia e urinare in strada. E\’ il genere di film in cui i maschi gigioneggiano (John C. Reilly in versione Hagrid castrato), le giovani donne sono inutili (la redattrice Kate Holmes) e spunta sempre una mania che ti contagia (ad esempio, non contaminare la carne bianca del pollo con quella scura). Nell\’aia pettegola che non sbaglia un acuto, eccelle il galletto Paul Dano: perfetta educazione d\’attore in cinema di maniera.

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CAPPUCCETTO ROSSO SANGUE

Ma che occhi grandi ha Amanda Seyfried! E\’ per guardare meglio il triste paesello innevato in cui si annida, sotto forma umana, il lupo mannaro che insanguina ogni plenilunio. E\’ per ammirare meglio l\’amato taglialegna col quale vorrebbe fuggire. E\’ per consolare meglio il bravo ragazzo al quale è promessa invano. E\’ per resistere allo sguardo inquisitore del predicatore anti-licantropo Gary Oldman che arriva scortato da mori grotteschi nella piazza di cartapesta di uno dei set meno credibili della storia del cinema. E\’ per dialogare meglio con la Bestia con cui sente di avere misteriose affinità (non solo perché da piccola voleva sgozzare i conigli in trappola). E\’ per capire meglio cosa accada nel letto e nelle vesti di nonna Julie Christie al termine di un sentiero che mescola il finale di Perrault (nonne e nipote divorate), quello dei Grimm (lietofine), e una sorpresa su cosa contenga il paniere della giovane. Il meccanismo giallo/horror sulla carta potrebbe funzionare (okkio a non perdere il filo degli intrighi incestuosi), ma la regista di “Twilight” lo vanifica in scene pacchiane nero pastello, restando sempre al margine di una (metaforica) foresta dark che non sa penetrare. Preferisce il solito \’triangolo solidale\’ tra una vergine e i suoi pretendenti.

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THE NEXT THREE DAYS

Dopo aver litigato con la cognata che sostiene una donna non possa lavorare sotto un\’altra (scena magistrale), Elizabeth Banks si sta godendo il bimbo biondo e il micione Russell Crowe a colazione, quando è arrestata per l\’omicidio della sua boss. La bellezza le scolora in parlatorio via via che perde la speranza di uscire di prigione. Il marito prof che si infervora insegnando Don Chisciotte, prima si ostina con(tro) i mulini a vento dei ricorsi, poi decide di farla fuggire. Setaccia idee grimaldelle e/o bombarole su Internet, contatta delinquenti che lo fregano, altri che lo aiutano, e Liam Neeson: recordman (deluso) delle evasioni. Tenta, fallisce, ritenta. E\’ il classico uomo grigiastro spinto oltre i propri limiti da situazioni imprevedibili, come piaceva a nonno Hitch. Eppure Paul Haggis ha deluso molti di coloro che ne tengono l\’osannato cadavere in cantina. Il regista di “Crash”, sceneggiatore di “Million Dollar Baby”, srotola le conseguenze di ogni gesto: azione e reazione su sfondo di destino beffardo. Ma in coda a un\’opera quasi perfetta (il paragone va fatto con analoghe trame sbalestrate), cade nella trappola degli inseguimenti su strada e su rotaia che deragliano in dialoghi micidiali. Due attori in stato di grazia, la perdono di colpo quando un babbo disperato si lancia lagnoso verso lo zoo e un\’ergastolana in fuga si preoccupa dei semafori rossi.

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