Il western della Frontiera, la guerra (invisibile) nel Pacifico, una prua che svergina le Americhe in immagini sublimi: il cinema di Terrence Malick è sempre un magma penetrante, un mondo in espansione, l\’esperienza della creazione di coscienze. Qui va oltre e partorisce l\’intero cosmo: un Film-Big-Bang che segue la densa linea verde della linfa dell\’amore fino all\’Albero della Vita. Malick non è Kubrick, a cui basta un gesto tra scimmie per spiegare l\’intera evoluzione (maligna) della Storia. E non solo perché collassa in 140 minuti (di)vaganti, o perché fa un tracotante uso a drappo della musica classica che per Sir Stanley era un arazzo spazio/temporale, ma perché Malick è un Saggio Buono. L\’odissea di questo capolavoro a metà vola oltre i cancelli di ogni cielo e trova cascate, onde, girasoli, invocazioni, lava, meteore, dinosauri, una ferrea fede in un dio assente (ma c\’è un paradiso da “Hereafter” con tanto di Mano Nodosa…). Parte da Giobbe e ne esige la pazienza; lancia grida di dolore tra le foglie con voci che hanno echi struggenti, poi vola sul filo dell\’acqua sentimentalista di Nicholas Sparks; scava nelle parole care per trovarvi un Vasto Senso tra Grazia e Natura (Beckett, che è un saggio e basta, le lascia rimbalzare nella loro impossibilità di averne ancora uno). Tutto girato da dio, ma con un dio di troppo. Le geometrie della solitudine e del dubbio assalgono Sean Penn tra ponti e grattacieli e lo spingono a ricordare l\’adolescenza: padre severo che non si lascia chiamare \’papà\’ ma sa riflettere sulla vergogna (Brad Pitt, eccellente), madre satellite/buono, un fratello scomparso, l\’altro pure ma senza un perché. Cristalli di vita non ordinati, perle di un racconto terreno intenso. Erano solo il pretesto per arrivare alle Grandi Domande bollite dai geyser e al National Spiritual Geographic? Vabbè, ce lo siamo goduto. Malick dà. Malick non toglie. Malick esagera. Il dolore resta.
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