Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
DRIVE ANGRY 3D

Nicolas Cage torna dall\’inferno per vendicare la figlia sgozzata e salvare sgommando la nipote in fasce dal sacrificio demoniaco. Venti parole capaci di stendere un branco di elefanti. Invece il filmaccio makkinista del regista di “San Valentino di sangue 3D” si mette in ruota a “Grindhouse” di Tarantino e diverte esagerando i toni da fumetto (e da B-movie anni 70). Una splendida bionda in shorts parla, spara, guida una Dodge Charger rossa del \’69, le dà e le prende da maschiaccio come un\’eroina di Genius Quentin. Una chiesa diviene il set di un massacro (vedi “Kill Bill”), il maledetto plenilunio sabbatico sconfina in fari e pupille che braccano vendetta, negli specchietti retrovisori si riflette l\’adrenalina sopra le righe di inseguimenti e carambole (okkio in platea ad asce e proiettili in 3D). Tono villico/villano, ma conscio di votarsi all\’incredibile eccesso. Così si accetta tutto: anche Nicolas Cage che porta un nome da paradiso perduto (Milton) e racconta, con fisso sguardo fesso post-Ghost Rider, le dannazioni infernali. Quella faccia da Armageddon di William Fitchner ce lo vuole riportare: godetevi l\’incontro con due fattoni. L\’ottima Amber Heard di “The Ward”, qui libera la corolla accecante sbocciando con grinta selvaggia da una cameriera in rosa.

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FAST & FURIOUS 5

Dopo l\’evasione/carambola di Vin Diesel, i sedicenti sgommanti riformano il clan di \’solo parti originali\’ del primo e del quarto episodio (il bis-cilecca e la trasferta a Tokyo non fanno testo) e vanno a scassare casseforti e carrozzerie sotto il Cristo e tra le favelas di Rio: come il pappagallino blu quanto il lampo di una Porsche. Al terzo tentativo, Justin Lin tampona il bersaglio nel miglior modo possibile: un\’azzardata rapina al treno, un abbozzo di spessore al carattere di personaggi decerebrati, un kattivo cinico/economico che funziona. Il livello dell\’auto(ops)ironia è sempre zero, ecco perché queste righe preferiscono sollazzarsi con eccessi più lerci e consapevoli. Qui credono davvero di fare intrattenimento serioso con salti acrobatici, inseguimenti da cartoon e fottuti controsterzi. Paul Walker persiste inutilmente biondo (altro che muovo Steve McQueen), Jordana Brewster sceglie il momento sbagliato per dirgli che sarà papà, ma il filone giusto per ancheggiare tra le fiancate. Figlio di un padre evocato commosso nel plenilunio, e di una Dodge Charger in evoluzione, Vin Diesel è ormai così taurino che il suo corpo a corpo con Dwayne Johnson sembra un incontro di sumo. L\’azione accelera fast & furious. Mai quanto l\’opzione fast forward.

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CAPTAIN AMERICA

Aspettativa bassa, quindi bella sorpresa e alto gradimento. Senza \’invadenti\’ pippe politiche contemporanee, il fulgido eroe di un\’America ancora senza k, spakka patriottico e non nazionalista, complici i nazisti, comodo nemiko da eliminare senza rimorsi. Ma la famigerata Hydra è scientificamente più erculea dello snobbato Hitler, al quale Capitan America dà un pugno in faccia sulla prima (profetica) copertina del primo albo del primo Vendicatore Marvel (1941). La storia fila via divertente: un ostinato soldo di cacio, che vuole servire il proprio Paese sull\’orlo della guerra, viene infine arruolato dall\’irriconoscibile Stanley Tucci che lo ritiene la cavia perfetta per il super-siero potenziatore. Dai coperchi di bidoni usati invano per difendersi dai cazzotti in ogni vicolo di New York (un raggio di “C\’era una volta in America”), il giovanotto passa allo scudo a stelle e strisce in lega ultra-solida, costruito dal babbo di Iron Man. Ma – “Flags of our Father” di Eastwood insegna – viene usato solo come simbolo in tuta per raccattare fondi in deliziose immagini da tournée militare. Dura poco, c\’è un Teschio Rosso da neutralizzare: Hugo Weawing, che si è fatto le ossa da superkattivo in Matrix. L\’ex Torcia Chris Evens arde di bontà muscolosa agli ordini di Tommy Lee Jones (con Samuel L. Jackson in attesa). Joe Johnston, Oscar per gli effetti speciali di Indiana Jones, è abile nel trasformarlo da scricciolo a velociraptor bellico: è il regista di “Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi” e “Jurassic Park III”.

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PIRATI DEI CARAIBI – OLTRE I CONFINI DEL MARE

Jack Sparrow è un vizioso pendaglio da forca con la puzza sotto il naso, quindi – anche se è un bugiardo incallito – quando le cose odorano di vecchio dovrebbe essere il primo ad accorgersene. : lo dice lui stesso in questo quarto episodio che naufraga tra scogli, duelli e magie ormai levigati da ondate di abuso fiabesco e dal sistematico saccheggio (divertente, all\’inizio) di antichi film filibustieri. In senso metaforico, piace pensare che il mare siamo noi (il pubblico) e la ciurma sono loro (i pirati bolliti); in senso pratico, il puzzo di palude di gag che tendono allo sbadiglio dovrebbero far desistere chi proclama l\’inizio di una nuova trilogia. Stavolta il tesoro da conquistare è la Fontana della Giovinezza, e anche questa è un\’ottima metafora. Keith Richards ci scherza su nell\’unica battuta quasi divertente. Penélope Cruz è un\’Angelica mora che ai meno giovani ricorderà antichi fremiti salmastri. Moderne sirenette allupate annaspano nelle grottesche coreografie 3d in cui le immerge il regista di “Chicago”. Spadaccino non eccelso ma fortunato (il che non giustifica stuntmen da parco acquatico in disgrazia), Johnny Sparrow Depp muta d\’abito, di ghigno e di pensiero con ritmo zerofolle. Tutto il resto è noia.

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GALLO CEDRONE

Il volontario della Croce Rossa Armando Feroci fa il cascamorto in un paese islamico e rischia la pena capitale. La tv racconta la sua vita agli italiani. E’ il classico ‘pappagallo’ che abborda le donne ( divenne un tormentone). E’ uno che si fa i capelli a cresta, che si crede il figlio segreto di Elvis, che va ai quiz per diventare famoso, che ha avuto un difficile rapporto col fratello serio e una tenera love-story con la cognata cieca. Per Carlo Verdone stavolta un solo personaggio, ma molti ritratti. Coatti.

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IL PRIMO INCARICO

Puglia, primo dopoguerra. Una graziosa giovane maestra, fidanzata con un bel ragazzo altolocato che ne ama la cultura, accetta la cattedra di una scuola elementare nel sud del Salento. Un pugno di case bianche, poche famiglie, vita rurale, alunni curiosi, donne che impastano più pane che parole, uomini gran lavoratori a cui tutto è dovuto. La ragazza è spaesata ma determinata, autonoma senza la necessità di essere ribelle. L\’impatto è ostico, ma non terribile. Lo diventa quando da casa arrivano pessime notizie… Isabella Ragonese è un\’attrice che brilla di instancabile luce propria. La regista debuttante Giorgia Cecere la immerge in una natura e in un contesto (a)sociale che dipinge con toni aspri ma non aridi. Non c\’è oca, gallina, pioggia, panca, auto sbuffante o addizione sulla lavagna che sfugga al ben composto progetto della prima parte del film: raccontare un percorso di vita e di emozioni (compreso un tentato suicidio) con immagini intense che siano \’occhio\’ ma non palpito. Ma quando gli impulsi sentimentali e le decisioni definitive vanno in pressing sul finale, quella stessa armonia – volutamente riluttante – diventa il limite di una storia che si crede compiuta e resta invece irrisolta. Aghi nel pagliaio narrativo. Averne di opere prime come questa.

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CORPO CELESTE

Dopo 10 anni in Svizzera, Anita Caprioli torna in Calabria con la figlia 18enne – già fidanzata e subito integrata – e la 12enne Marta per cui tutto è invece alieno: dal vuoto trafficato delle strade di Reggio al vuoto lessicale del corso di preparazione alla Cresima. Innamorata del parroco Salvatore Cantalupo (visto in “Gomorra”) che somministra santini elettorali, la perpetua improvvisata Pasqualina Scuncia (bravissima) organizza processioni in cui il folklore ha sotterrato il sacro, dirige canti da via crucis karaoke () e predica un catechismo fatto di regole senza più spessore: ci si mette la fascia bianca in fronte citando Rambo. La comunità si crogiola beata nel Credo degli Agonizzanti. La ragazzina scopre gli altri, se stessa, il mare, un Gesù arrabbiato sulla croce descritto dal vecchio prete Renato Carpenteri, rimasto solo in un metaforico paese diroccato. Attraverso gli occhi attoniti ma curiosi della straordinaria Yle Vianello, così simili a quelli di sua sorella Alba, Alice Rohrwacher ci tocca con la Grazia realista sviluppata in una carriera di documentari. Dopo aver così ben descritto trucco e parrucco di celebrazioni religiose tele-derivate, non si affanni a cercare benedizioni. Per essere un esordio, il suo film è un capolavoro.

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RIO 3d

Il babbo brasiliano di tre spassose ere glaciali (e del delizioso “Robots”) parte forte dalle foreste di casa: gran coreografia di tucani, fenicotteri, multicolori amici ara/ara, flora rigogliosa e fauna serena finché non arrivano gabbie e retini. Un pappagallino blu con la voce di Fabio De Luigi non fa neanche in tempo a svezzarsi che si ritrova nel freddo Minnesota, sballottato sul camion dei cuccioli come ne “La carica dei 101”, palese fonte ispiratrice in immagini e situazioni (a seguire: “Up” e “I tre caballeros”). Il Brasile è solo un punto sul mappamondo, il volo un\’arte ignota che tenta di apprendere dai manuali per piloti. Ma arriva l\’occhialuto ornitologo che convince l\’occhialutissima padroncina bibliotecaria a riportare in patria l\’adorato volatile domestico (aggettivo che presto diventerò un insulto) per farlo accoppiare con un\’aggressiva sexy-compagna blu (ugola da tenera Valchiria: Victoria Cabello). Sono gli ultimi della loro specie e fanno gola ai kattivi esportatori di animali esotici: la trama svolazza divertente tra arditi deltaplani e arditi deretani al sole di Ipanema. Frutta, favelas e futebol. Lionel Ritchie, Cristo e Carnevale in 3d adorante. Tranne una stecca tucana, tutto è ecologica armonia, compresi un cacatoa cannibale e José Altafini bulldog.

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L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO

Hitchcock fa il remake di se stesso (film omonimo del ’34, trama identica) raggiungendo forse la vetta più ispirata del suo cinema a caccia di angosce eccezionali di cui sono vittime persone non eccezionali. I coniugi James Stewart e Doris Day, in vacanza a Marrakech, sono testimoni involontari dell’omicidio di una spia e raccolgono le ultime parole del moribondo riguardanti un piano per attentare alla vita di un ambasciatore straniero a Londra. Gli assassini, dopo aver carpito la loro fiducia, rapiscono il figlioletto della coppia per impedire soffiate alla polizia. Nella capitale inglese l’attentato sarà sventato e il ragazzino ritrovato grazie alle celebri note di “Que serà serà”. Attori e regia notevoli, idee sonore memorabili (come già in “Psyco”): nei momenti cruciali, grida, fischi e musiche stridenti.

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MR. BEAVER

Mel Gibson – oggi l\’uomo più detestato da Hollywood a causa di eccessive violenze domestiche e religiose – fa il ventriloquo di se stesso (depresso) con una brutta marionetta da castoro in mano. Poteva essere un\’ecatombe di comicità più o meno involontaria. Lui che tenta il suicidio e si ritrova il televisore addosso con i Sex Pistols a palla, che parla con un accento ridicolo che – col passare dei giorni – diviene animalesco/autoritario, che dà alla moglie perplessa ed esausta (di lui) un fogliettino con le istruzioni per seguire la terapia dello psico-vangelo roditore, che lo consegna anche al figlio 17enne: l\’ottimo Anton Yelchin dei nuovi “Star Trek” perde i toni da bravo ragazzo. I raggi di porcellana di Jennifer Lawrence (“Un gelido inverno”) a stento ne placano il disgusto. Ma lo sguardo di Jodie Foster, fuori e dentro il film, traduce ogni urletto in dramma famigliare di gente comune. Alla sua terza regia in vent\’anni, la Foster conferma un talento quasi noir, capace di dilatare sceneggiature ad alto rischio: cinema classico con sbalzi di un umore acidulo che tende all\’isteria e non alla pacificazione. Difficile non sbuffare man mano che Gibson e il suo alter ego risollevano le proprie fortune lavorative. Ma tutto serve, e ogni diga – al momento giusto – scricchiola.

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