Mel Gibson – oggi l\’uomo più detestato da Hollywood a causa di eccessive violenze domestiche e religiose – fa il ventriloquo di se stesso (depresso) con una brutta marionetta da castoro in mano. Poteva essere un\’ecatombe di comicità più o meno involontaria. Lui che tenta il suicidio e si ritrova il televisore addosso con i Sex Pistols a palla, che parla con un accento ridicolo che – col passare dei giorni – diviene animalesco/autoritario, che dà alla moglie perplessa ed esausta (di lui) un fogliettino con le istruzioni per seguire la terapia dello psico-vangelo roditore, che lo consegna anche al figlio 17enne: l\’ottimo Anton Yelchin dei nuovi “Star Trek” perde i toni da bravo ragazzo. I raggi di porcellana di Jennifer Lawrence (“Un gelido inverno”) a stento ne placano il disgusto. Ma lo sguardo di Jodie Foster, fuori e dentro il film, traduce ogni urletto in dramma famigliare di gente comune. Alla sua terza regia in vent\’anni, la Foster conferma un talento quasi noir, capace di dilatare sceneggiature ad alto rischio: cinema classico con sbalzi di un umore acidulo che tende all\’isteria e non alla pacificazione. Difficile non sbuffare man mano che Gibson e il suo alter ego risollevano le proprie fortune lavorative. Ma tutto serve, e ogni diga – al momento giusto – scricchiola.
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