Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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20 SIGARETTE

Il 12 novembre del 2003, quando i kamikaze fecero strage di militari e civili italiani (e di bambini irakeni) a Nassiriya, Aureliano Amadei fu l’unico superstite. Anarchico di idee e sentimenti, era lì come aiuto regista in una pellicola sulla ricostruzione. Ferito gravemente a una gamba e nello spirito, due anni dopo ha scritto il libro da cui nasce questo film capace di coinvolgere, commuovere e persino divertire evitando le mine della retorica e dell’antiretorica. Fumatore accanito, non riuscì nemmeno a finire il primo pacchetto prima che la sua storia divenisse Storia pagando pegno a una tragedia. Lo vediamo in un’improbabile no smoking area nel deserto, conoscere le future vittime e scoprire un Iraq ad alto rischio, diverso da quello raccontato in Italia <…perché la gente vuole la bistecca, mica vuole sapere come è stata macellata la mucca>. Poi non vediamo più lui, ma esplosioni e cadaveri attraverso i suoi occhi. In una fiction realista che rende umani gli ideali e smaschera qualche altarino, eccelle Vinicio Marchioni, il Freddo nel “Romanzo Criminale” tv, altro buon esempio di megliofiction tricolore. Godetevelo scherzare con Giorgio Colangeli, ovvero Stefano Rolla. Che russava come un elicottero e credeva di avere tutto il tempo per girare .

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IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE

La storia vera delle cinque bellissime sorelle Lisbon: creature tanto bionde, sublimi e distaccate da sembrare appartenenti a un mondo privato nel quale nessun altro è ammesso. I ragazzi del vicinato sono affascinati e incuriositi: le spiano, le riprendono, fanno collezione di oggetti che appartengono a loro. Quando la più giovane si suicida senza spiegazione, dal sogno si passa all’incubo. Uscire dal guscio sarà solo un guaio. E poi non ne rimase nessuna. Debutto nella regia di Sofia Coppola: talento ipnotico applicato non all’indagine delle cause ma una ricostruzione d’epoca – gli anni 70 – con toni da incubo leccato. Sarà il suo marchio di fabbrica.

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LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI

A Torino risuonano le nervose note dei Goblin con un\’angosciante cantilena infantile, scricchiola una giostra tra tetre panchine, s\’impenna morbosa recita scolastica, si staglia un pagliaccio inquietante (Filippo Timi, memorabile). Ma non è Dario Argento. Scivolano grigio nevischio e cupi corridoi da albergo di montagna. Ma non è “Shining”. E’ Saverio Costanzo che traduce in tono horror, con l’aiuto dell’autore, il best seller di Paolo Giordano. E\’ un doloroso viaggio nel profondo rosso di infanzie sanguinose. Feriti nella psiche da genitori troppo esigenti, troppo possessivi, troppo fragili, o comunque troppo, Alice e Mattia scontano l’esclusione sfogandosi su se stessi ( dice Pasolini). Lei zoppica a causa di una maledetta sciata imposta. Poi, l’anoressia. Lui si taglia per punirsi di aver abbandonato, a otto anni, la gemella malata. Poi ingrasserà. Alba Rohrwacher è immensa anche pelle/ossa (idem Arianna Nastro, Alice adolescente). Ha densi occhi chiari, come l’esordiente Luca Marinelli e come Bette Davis in colonna sonora. Pozzi di traumi che forse si seccheranno guardandosi, come i numeri del titolo, moltiplicabili solo per se stessi. Costanzo si specchia nell’incubo ( il suo è una brutta morte in Lady Oscar) e l’incubo se lo inghiotte in un magma necessario eppure troppo incandescente da maneggiare: salta nel tempo, ci scotta, si avvita, ci espelle.

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THE KARATE KID – LA LEGGENDA CONTINUA

Modesta ma severa cine-proposta: vietare per tre generazioni di spettatori (minimo 35 anni) i remake di film gloriosi che hanno tutto il diritto di godersi la meritata fama in replica: a noleggio, in tv, o come vi pare. Così ci saremmo risparmiati questo bis pomposo degli efficaci saltelli innescati nel 1984 da John G. Avildsen, regista di “Rocky”. Il kung fu al posto del karate, il (troppo) baby di Will Smith al posto di Ralph Macchio, Jackie Chan al posto del mitico Pat Morita: grande tecnica per mettere ko (ops, per atterrare) branchi di bulletti mocciosi, categoria che ormai ha la peggio solo al cinema. Sfondi imponenti: Grande Muraglia, Tienanmen, il tempio sul monte Wudang e la Città Proibita che non consentiva l’ingresso alla macchina da presa da “L’ultimo imperatore” di Bertolucci. La regia di Harald Zwart mette di buona lena la cera e toglie di buona lena la cera al film capostipite in una pedante falsariga reverente che rende superfluo il remake mentre lo stucchevole abbassamento dell’età lo rende molesto. Non che l’originale fosse un capolavoro, ma faceva simpatia. Persino negli sgrammaticati seguiti/ricalco dove si è fatto le ossa e i lividi Kim Rossi Stuart. Qui simpatia zero. Il titolo mente, e non solo sul karate. La leggenda non continua.

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NIGHTMARE

Modesta ma severa cine-proposta: vietare per tre generazioni di spettatori (minimo 35 anni) i remake di film gloriosi che hanno tutto il diritto di godersi la meritata fama in replica: a noleggio, in tv, o come vi pare. E bandire i rebooting, ovvero la ripresa di saghe cadute in disuso riavviandole da capo, poco rivedute e mal corrette. Un genere che mostra lo scheletro liso anche nelle mani di quel geniaccio horror di Rob Zombie che spreca talento a resuscitare “Halloween” invece di dedicarsi ad altre case, ad altri corpi, ad altri diavoli clown. Così ci saremmo risparmiati questo bis fiacco dei feroci incubi artigliati da Wes Craven nel 1984. Dagli antri muscosi, dai drugstore lucenti, da boschi e da arse fucine stridenti, riecco il kattivo con maglione a righe e cappellaccio che ti dilania se ti addormenti. Perché le colpe dei padri (che lo massacrarono) devono ricadere sui figli assonnati. Nessuno, tranne il mitico Robert Englund, può essere Freddy Krueger; né la nuova miscela di incubo e realtà riesce a riportare a Elm Street occhi cerchiati di stanchezza e paura. E, per una volta, non perché siamo invecchiati noi che ci siamo goduti l’originale. Ma proprio perché ancora oggi basta e avanza quello. Qui mai un brivido: neanche coi graffi su lavagne e tubature.

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GIUSTIZIA PRIVATA

. Così Gerald Butler vede il procuratore Jamie Foxx patteggiare col più feroce dei due criminali che gli hanno violentato e ucciso moglie e figlia, al fine di essere sicuro di incastrare l’altro. Così diviene il consueto vendicatore in proprio che fa – letteralmente – a pezzi i criminali e il sistema giudiziario a stelle e strisce. Più ingegnoso del consueto a dire il vero: siamo a livello Diabolik quanto a scavi, provocazioni e genio dinamitardo. La vittima dell’ingiustizia e il pezzo grosso politico/legale si fronteggiano in un duello (a)morale vecchio quanto il cinema, su sfondo di frasi ad effetto (, non puoi combattere il fato) e ricatti carcerari che esigono asparagi e cavilli novelli. Il regista di “The Italian Job”, “Il negoziatore” e “Il risolutore” all’inizio coltiva il thriller sincopato: cala il sipario sul saggio musicale, si alza quello su una feroce esecuzione. Poi si limita ad accumulare improbabili fattacci bombaroli schizzati da lampi sanguinolenti. Morale reazionaria, è ovvio. Che però merita un nota: se la trama non fosse yankee ma di un film d’oriente, ce la berremmo con più indulgenza per gli acuti giustizieri. Trovandole un giusto alibi nello stile.

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QUALCOSA DI SPECIALE

Il vedovo coi (sacrosanti) sensi di colpa Aaron Heckart ha reagito al lutto scrivendo un best seller in cui esorta a trasformare l’asprezza del limone (ovvero il destino) nella capacità di prepararsi una limonata. Arriva nella suggestiva (non per lui) Seattle: accende candele nei meeting di autocoscienza per sfortunati nella sua stessa condizione, carboni ardenti per esortare a un nuovo cammino, speranze nel portafoglio del suo agente con grosse trattative nel mirino. Ma in privato è depresso e il suocero Martin Sheen, strepitoso quanto il suo pappagallo, lo fronteggia accusandolo di viltà e cinismo. Ecco dunque sbocciare per lui la fioraia Jennifer Aniston che non sa coltivare rapporti d’amore, ma scrive arcane parole sui muri e offre gradevoli scorze sexy alla lemon comedy agrodolce. Inevitabile passione frizzante in difficoltosa fuga dai rimorsi, inevitabile elaborazione del lutto con tanto di pellegrinaggio alla tomba di Bruce Lee (e figlio). Tutto poco speciale, tranne la giusta scelta di Aaron Eckhart che sa cavarsela bene sia come (finto) cinico (tormentato) che in versione pastafrolla romantica. Non per niente viene da “Nella società degli uomini”, da “Thank You For Smoking”, da “Il cavaliere oscuro” e da “Sapori e dissapori”.

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TOY STORY 3 LA GRANDE FUGA

Il cowboy Woody, la sua cowgirl, il ranger spaziale Buzz, il maialino, il dinosauro e gli indivisibili (ma smontabili) Mr. e Mrs. Potato hanno il problema di tutti i cari compagni di gioco perduti, o ceduti per sbaglio. Hanno il problema di Lassie: devono tornare a casa. E anche la sua ferrea determinazione fedele quando fuggono da un asilo falsamente accogliente e quando evitano il rischio mortale di una discarica per essere ancora – almeno per un attimo – le marionette della fantasia del loro padroncino, ormai cresciuto e in partenza per il college. Barbie trova un Ken elegante, vanesio e un po’ bsx/maso (metrosexual direbbero gli stilisti). Chi li ha avuti tra le mani ne riconoscerà divertito ogni legnoso (non) movimento. Buzz va in strepitosa modalità spagnola, Mr. Potato si reincarna (ops) in una tortilla, un cicciobello sa essere inquietante e un memorabile guardiano vigila sull’asilo lager ( urla il telefono con la voce di Gerry Scotti). La Disney/Pixar ci delizia con uno straordinario corto (Linea-re), cinecitazioni d’oriente, soggettive balocche e tenere gag che accalappiano sorrisi e commozione. I più giovani se le godano meditando, abbracciati al loro pupazzo (oggi) preferito. Per gli adulti non c’è scampo. Dopo “Up”, un altro squisito colpo basso. (Ci) si piange.

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tv 6 dicembre

21.10 Italia 1 Cambia la tua vita con un click

Il telecomando creato dallo strambo Christopher Walken consente rewind, forward e stop benefici all’impegnato architetto Adam Sandler, tormentato da moglie, figli e cane. Ma sorgono problemi \’tecnici\’… Molto ritmo, poco stile. Con Fonzie, David Hasseloff, U2 e Gwen Stefani.

23.10 Rete 4 Attacco al potere

Il regista bellico Edward Zwick (“L\’ultimo samurai”) lo girò 3 anni prima dell\’11/9. Un autobus esplode a New York: minaccia islamica. Scendono in campo: il drastico militare Bruce Willis, il negoziatore Denzel Washington e miss Cia Annette Bening. L’unione fa la (troppa) forza.

23.45 RaiDue Saw V

Quinto morso feroce per la saga di Jigsaw, morto ma in scena grazie ai flashback che ci narrano come conobbe il suo erede che qui allestisce l\’ultima (?) gabbia preparata dall\’Enigmista, crudele con chi non ama la vita. L\’ingranaggio mortale campa di rendita, tra lame e gas.

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X-MEN

Bryan Singer, già regista de “I soliti sospetti”, gestisce effetti speciali e discriminazioni tra umani e mutanti limitandosi ad accentare gli uni e le altre. Capita così che lo spessore e l’avventurosa saggezza dell’originale fumetto Marvel sbiadiscano. Ne esce uno statico calderone in cui tutti sembrano non credere a sfondi approssimativi e a personaggi solo abbozzati: creature dotate di superpoteri che gli uomini temono e che si dividono tra chi vorrebbe collaborare con loro e chi crede di doversi difendere attaccando. Telepati, forze da conoscere e dosare, compromessi politici, figure più eccessive che memorabili. Un paio di decenni d’attesa per vedere Patrick Stewart fare il pomposo supereroe druido e Ian McKellen sguazzare feroce fuori parte? Ai fan l’ultima parola.

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