Modesta ma severa cine-proposta: vietare per tre generazioni di spettatori (minimo 35 anni) i remake di film gloriosi che hanno tutto il diritto di godersi la meritata fama in replica: a noleggio, in tv, o come vi pare. Così ci saremmo risparmiati questo bis pomposo degli efficaci saltelli innescati nel 1984 da John G. Avildsen, regista di “Rocky”. Il kung fu al posto del karate, il (troppo) baby di Will Smith al posto di Ralph Macchio, Jackie Chan al posto del mitico Pat Morita: grande tecnica per mettere ko (ops, per atterrare) branchi di bulletti mocciosi, categoria che ormai ha la peggio solo al cinema. Sfondi imponenti: Grande Muraglia, Tienanmen, il tempio sul monte Wudang e la Città Proibita che non consentiva l’ingresso alla macchina da presa da “L’ultimo imperatore” di Bertolucci. La regia di Harald Zwart mette di buona lena la cera e toglie di buona lena la cera al film capostipite in una pedante falsariga reverente che rende superfluo il remake mentre lo stucchevole abbassamento dell’età lo rende molesto. Non che l’originale fosse un capolavoro, ma faceva simpatia. Persino negli sgrammaticati seguiti/ricalco dove si è fatto le ossa e i lividi Kim Rossi Stuart. Qui simpatia zero. Il titolo mente, e non solo sul karate. La leggenda non continua.
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