Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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INNOCENTI BUGIE

Il miglior Tom Cruise è quello ciniko/kattivo di “Magnolia” e sexy/acrobatico in “Cocktail”. Ma se la cava sempre alla grande – da “Top Gun” a Kubrick – schierando la sua smania da impunito col sorrisaccio che accalappia. L’importante è che non si prenda sul serio mentre azzarda missioni impossibili. Alla soglia dei 40, Cameron Diaz sa ancora sgranare gli occhioni e affilare artigli sexy/brillanti (oltre a essere l’unica star di Hollywood che dice qualcosa di originale nelle interviste). L’importante è che non si prenda sul serio quando fa la fanciulla in pericolo. Lui è uno 007 al cubo che la seduce in aereo. Mentre la preda bisognosa di cacciatore si rifà il trucco, stermina tutti in carlinga, piloti compresi. Seguono: atterraggio di fortuna nel mais e (dis)avventure tra sopraelevate yankee, atolli caraibici, Alpi e tori europei. Anche il pomposo cinema d’azione funziona solo se non si prende sul serio. Solo se è balocco accelerato, iperbole, cartoon in carne e ossa che esagera sghignazzando(si). Qui la confezione è chic, il regista ha mestiere e – effetti speciali a parte – sembra una pellicola retrò. Ma il modello è “True Lies”. L’ideale sarebbe “Shoot’em Up”, il peggio è “Mr. e Mrs. Smith”. Bugie pacchiane, l’unica (ir)realtà godibile in filmastri di questo (sotto)genere.

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UNA SCONFINATA GIOVINEZZA

Un affermato giornalista sportivo e una prof universitaria: dolorosamente senza figli, teneramente affezionati. Lui inizia incespicando nella ricerca di un verbo, poi non ricorda il nome delle melanzane, quindi perde il filo negli articoli. E’ Alzheimer. Ovvero perdita della memoria recente, rifugio in quella passata, paura, angoscia, smarrimento. Rabbia, possesso e persino violenza ai danni della persona al fianco. Fabrizio Bentivoglio è struggente sul gradino inclinato della malattia, Francesca Neri (più difficile da invecchiare) lo assiste con occhi ostinati e cure infine materne. Prima di essere vittima del malanno che lo spinge a sfornare un film all’anno, Pupi Avati è stato l’Autore del Tempo (tra)Passato, del ricordo a cui ancorare una vita, delle gite scolastiche di ragazzi e ragazze nell’epoca sospesa dei colli bolognesi. E’ naturale che nell’Alzheimer veda anche la dolcezza della regressione e un disperato nuovo bisogno di infanzia. Rischia molto spedendo in quella zona – temporale e geografica – il suo anziano fanciullo. Là dove la nebbia agli irti colli dei ricordi sale piovigginando melassa, Gianni Cavina è cinico come in “Regalo di Natale” e Serena Grandi ed Erica Blanc sfioriscono malinconiche. Ma il viaggio gli riesce. Intenso, commovente, collaudato.

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RESIDENT EVIL: AFTERLIFE 3D

Il cine-videogioco fa poker per la gioia dei fan delle lame rotanti che nessun elmetto può fermare, per i sempre assettati di virus e zombie in sguaiata espansione e per gli ammiratori di Pupilla Jovovic. Qui sexy/efficacissima, ma più casta nelle pose rispetto al terzo episodio, scandalosa fanta-istigazione a delinquere col proprio corpo per giovanotti in astinenza da PlayStation. Sarà perché la serie ritorna tra le abili mani di Paul W.S. Anderson che firmò il primo capitolo, è riuscito a rendere godibile persino “Alien Vs Predator” (lo si confronti con la miseria del seguito) e di Milla è il legittimo consorte. Come la Sposa di Tarantino, la troppo esperimentata Alice ritrova la smarrita Claire e sfodera rabbia e spadoni contro la kattivissima Umbrella Corporation nelle acque di Los Angeles mentre i mostri voraci premono ai cancelli o si acquattano tra le mille fiaccole di scene spesso e volentieri peggio che buie. Atmosfere post-Matrix (okkio agli okkiali), atterraggi e decolli dai grattacieli e uno strepitoso lancio con liana tecnologica: l’intrepida pifferaia fa saltare gli zombie come lemming dalla scogliera di uno skyline. L’avrete inteso: film perfetto per godersi il 3D, macchina delle meraviglia da applicare soltanto al giusto prodotto esagggerato. Ovvero questo.

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I MERCENARI

Moderni filibustieri vanno a fare utili disastri dove la legge non può arrivare: esplode l’soletta caraibica colonizzata dallo yankee Eric Roberts che traffica in droga e battute azzeccate: dice alla bella che si ribella al padre dittatore. Stallone invecchia (maluccio) coi sensi di colpa e – come sempre – sono problemi nostri. Ce li butta addosso con l’erculea viuulenza retorica con cui stecchiva gli asiatici, sudava nelle canotte, indossava i Ray-Ban e il nome Cobra. Qui ha foga anti-Usa grottesca quanto le antiche incursioni patriottiche a stelle e strisce. Rare iniezioni della crepuscolare malinconia del suo ultimo (splendido) Rocky e massicce dosi di bombe&mitraglia del suo ultimo (pessimo) Rambo: roboanti inseguimenti nei vicoli, corpi crivellati come frutti marci, aerei letteralmente presi al volo. Ma Sly, in versione old fabriziocorona, si è studiato Tarantino: dialoghi e finale ammiccanti. Un Jet Li per decollare nelle piroette, Jason Statham transportato a far da spalla, Bruce Willis e Schwarzy over the top dell’autoironia e superMickey Rourke tatuato di viziosa saggezza. Dolph Lundgren, che in “Rockv IV” voleva spiezzarlo in due, è l’amico/traditore che risorge. Perché certi corpi appartengono al cinema, mica a chi se li scassa scassando. E magari poi invecchia.

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BENVENUTI AL SUD

Per il brianzolo nebbioso made in Usmate Claudio Bisio (a suo agio, stile Zelig) se parli di sud Italia intendi Bologna. Roma è uno spauracchio, Napoli una città infernale che . La sua padanissima moglie Angela Finocchiaro fa le ronde e chiede lo scontrino all’extracomunitario coi palloncini. Lui si finge disabile per essere trasferito in un ufficio postale milanese, se lo gioca con uno svarione fantozziano, finisce in lacrime a Castellabate (Salerno) rischiando la multa per eccesso di lentezza. Tolti di dosso giubbotto antiproiettile e diffidenza, scoprirà fuochi d’artificio di calore umano e ritmi placidi ma non oziosi. Si gode la vita, dimentica il gorgonzola e la statuetta del Duomo (okkio a come la usate), allestisce un teatrino sudista caricaturale che tenga lontano la sua signora. Il coinvolgimento è già mezza simpatia. L’originale francese “Giù al nord” era una farsetta estranea (il regista è lo straniero col pacco da spedire); qui si ridacchia complici tra affollati luoghi comuni e (pre)giudizi vecchi come la perenne disunità d’Italia (altro che blabla celebrativi). Il furbo Luca Miniero strizza l’occhio a Totò tenendo la commediola nel ridente borgo vista mare: di Napoli si vedono solo la maglia di Lavezzi e Alessandro Siani in scia a Troisi.

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LA PASSIONE

Un regista poverocristo che non gira un film da cinque anni e viene trascurato da Repubblica (frecciatona) è costretto dal sindaco Stefania Sandrelli e dal feroce assessore Marco Messeri a dirigere una rappresentazione del Venerdì Santo in un borgo del senese. Scarso di liquidi, ha lasciato marcire i tubi di casa facendo gocciolare il costato del Signore in un affresco adiacente. La Passione di Gesù e quella di Silvio Orlando vanno di pari passo malfermo. L’Uomo non trova interpreti adeguati: Corrado Guzzanti – bravo ma sprecato – si sente tradito dalla frutta di gommapiuma . L’ometto (ateo) è in crisi di ispirazione e bersagliato dalla sfiga. In un film di Carlo Mazzacurati, solo mezzi miracoli: il sorriso della barista Kasia Smutniak, la toccante descrizione del perdente che non sa come dire che non è obbligatorio avere qualcosa da dire e l’ottimo Giuseppe Battiston che ha imparato a memoria il Vangelo in prigione e finisce sulla via crucis come un nipote di Pasolini. Ma la commedia amara si snoda prevedibile e la farsa stenta a decollare cedendo alla macchietta (l’insopportabile affittacamere). Il cuore in croce di Mazzacurati è nello sfogo contro la teleregina Capotondi da Rivombrosa e in quel Gesù improvvisato e deriso: grasso, ma ci mette il sangue.

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INCEPTION

Partiamo dal fondo, ché per spiegare la spirale di sogni nei sogni dei sognatori ci vorrebbero pagine e – soprattutto – bisognerebbe averli capiti bene. Ecco, “Inception” finisce e non ti dispiace, non hai voglia di srotolarlo per controllargli il gioco a incastri. Come sempre Christopher Nolan dà per scontata l’intelligenza dello spettatore: un complice voglioso di ripercorrere “Memento” e “The Prestige”, di ri-godersi i suoi cavalieri oscuri. Ma non si ha voglia di rivedere il dilatato “Inception”. Il balocco è ingegnoso, ambizioso, cerebrale, freddissimo. Surreale, metafisico, estraneo. Ricco di invenzioni acrobatiche, povero di psicologie. Lo scassinatore di menti che fa sognare le sue vittime per rubare informazioni al loro inconscio ha echi e sfondi sublimi, ma poco spessore: giusto che sia Leo Di Caprio, oggi solo un buon attore faccioso in ostinata marcia verso gli happy end. Ha oscuri sensi di colpa che interferiscono con l’architettata architettura onirica e tiene famiglia: moglie nel limbo dei ricordi ricreabili; figli negli States, dove è ricercato per omicidio. Deve inseminare un’Idea e partorire se stesso. Labirinti, scale, corridoi. Arianna, Escher, Kubrick. Cotillard, Piaf e 007 tra nevi e sinapsi. Inseguimenti e spari da supereroi batsognati by Nolan. Parigi si chiude su stessa: pochi effetti molto speciali, troppo nobili per il 3D.

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MANGIA PREGA AMA

La tormentata newyorkese Julia Roberts – che il dio del cinema la perdoni – lo fa davvero: s’ingozza di pizza, spaghetti e luoghi comuni a Roma e Napoli ( sigh), sprofonda nella meditazione da cartolina in India, pesca il sexy-jolly Bardem a Bali dopo essersi illuminata d’immenso con uno sciamano da “Karate Kid”. La morale del bestseller a monte è che gli americani conoscono l‘intrattenimento ma non il piacere. Se, nella sceneggiatura che ne deriva, l’Italia è un imbarazzante affresco trapassato remoto di pummarola, suorine, vasche senza acqua corrente, dolce vita e dolce far niente, calcio, chiesa, opera (di Mozart?), Argentero al dente, gentaglia gesticolante, vecchie bifolche dal nome strambo e pischelli che assaltano i fondoschiena per strada ( dice lo spettatore già vittima di “Letters to Juliet” e “The American”), perché dovremmo fidarci della trama ultranoiosa quando trasloca nell’oriente new age? Senza un boccone della grazia di Meryl Streep che si scioglie per il burro francese in “Julie & Julia”, la Roberts invoca mutamenti, esalta rovine, non dà retta a James Franco che le offre un’amorosa complicità post-amore, fa sesso per lubrificare le giunture e mangia il prosciutto con le mani. Vergogna.

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FRATELLI IN ERBA

Amici della commedia nera e de “L’erba di Grace”, godetevi Edward Norton che interpreta due gemelli diversi sebbene uguali (barba a parte). Uno è un affermato prof di filosofia che predica l’equilibrio socratico (molto utile quando un’allieva gli si spoglia addosso citando Catullo) e ha preso il largo dalla profonda provincia dell’Oklahoma dove babbo e mamma fattoni gli hanno traumatizzato l’adolescenza. L’altro è fieramente rimasto lì, coltivando il vizio di famiglia: alleva con amore la cannabis in ricircolo idroponico (solo acqua, niente terra), ne fa largo uso con beato sorriso illegale, rifiuta droghe che richiedano il naso o il cucchiaio, si è messo in brutti guai per pagare il macchinario. Nel lodevole mix di generi ideato da Tim Blake Nelson, che interpreta l’amico smilzo del disgraziato, questi si finge morto per attirare il fratello affinché gli faccia da alibi in un piano pensato male che finirà malissimo. Ovvio che i due finiscano a sfattonare inneggiando ai paradisi terreni e insultando Heidegger. Ovvio che il figliol prodigo trovi l’amore condito di dolce poesia (Whitman) e forzuta pesca d’acqua dolce. Ovvio che sbatta contro i rimorsi hippie-materni di Susan Sarandon. Meno ovvio il nevrotico finale quasi surreale che sfreccia (!) degno dei Coen. Ma ormai il danno è fatto: molte foglioline stupefacenti sono state rovinate dal sole della retorica.

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MORDIMI

Il titolo originale era perfetto: “Vampires Suck”: i vampiri fanno schifo. Meglio ancora: ci hanno scassato le pa…zienze. Il fimastro è una parodia che neanche prova ad avere una propria dignità (ci vorrebbe Mel Brooks): si gode la scarsa dignità delle pellicole nel mirino: “Twilight” e derivati. Colossale problema per gli autori del demente (e non demenziale) “3…ciento”: come sfottere dialoghi che sono già la propria caricatura? Il licantropo sempre allupato si trasforma in chihuahua e fa pipì alzando la gamba anche da umano. Lotta a badilate tra le fan del VampiRomeo bianchiccio e quelle dello Scanottierato Mannaro. Babbo sceriffo ama la bambola gonfiabile. I casti vampiri cedono agli ormoni canini quando troppo sangue schizza maldestro in casa loro. Ma nessuna scena può raggiungere lo spessore comico del non-triangolo del vero “Eclipse”: lei che dorme tra le gelosie telepatiche e gli orgasmi mentali di due sciroccati fantasy mentre fuori dalla tenda infuriano nevicate e battaglie tarocche. Tra mediocri sfottò a Tiger Woods e ai divetti di musica e tv yankee, due gag da urlo: la rivelazione in un cinema (!) del finale della saga (pronunciatelo all’americana) e un obeso Edward che piagnucola davanti alla tv perché Carrie e Mr. Big di “Sex and the City” non riescono a stare insieme.

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