Partiamo dal fondo, ché per spiegare la spirale di sogni nei sogni dei sognatori ci vorrebbero pagine e – soprattutto – bisognerebbe averli capiti bene. Ecco, “Inception” finisce e non ti dispiace, non hai voglia di srotolarlo per controllargli il gioco a incastri. Come sempre Christopher Nolan dà per scontata l’intelligenza dello spettatore: un complice voglioso di ripercorrere “Memento” e “The Prestige”, di ri-godersi i suoi cavalieri oscuri. Ma non si ha voglia di rivedere il dilatato “Inception”. Il balocco è ingegnoso, ambizioso, cerebrale, freddissimo. Surreale, metafisico, estraneo. Ricco di invenzioni acrobatiche, povero di psicologie. Lo scassinatore di menti che fa sognare le sue vittime per rubare informazioni al loro inconscio ha echi e sfondi sublimi, ma poco spessore: giusto che sia Leo Di Caprio, oggi solo un buon attore faccioso in ostinata marcia verso gli happy end. Ha oscuri sensi di colpa che interferiscono con l’architettata architettura onirica e tiene famiglia: moglie nel limbo dei ricordi ricreabili; figli negli States, dove è ricercato per omicidio. Deve inseminare un’Idea e partorire se stesso. Labirinti, scale, corridoi. Arianna, Escher, Kubrick. Cotillard, Piaf e 007 tra nevi e sinapsi. Inseguimenti e spari da supereroi batsognati by Nolan. Parigi si chiude su stessa: pochi effetti molto speciali, troppo nobili per il 3D.
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