La tormentata newyorkese Julia Roberts – che il dio del cinema la perdoni – lo fa davvero: s’ingozza di pizza, spaghetti e luoghi comuni a Roma e Napoli ( sigh), sprofonda nella meditazione da cartolina in India, pesca il sexy-jolly Bardem a Bali dopo essersi illuminata d’immenso con uno sciamano da “Karate Kid”. La morale del bestseller a monte è che gli americani conoscono l‘intrattenimento ma non il piacere. Se, nella sceneggiatura che ne deriva, l’Italia è un imbarazzante affresco trapassato remoto di pummarola, suorine, vasche senza acqua corrente, dolce vita e dolce far niente, calcio, chiesa, opera (di Mozart?), Argentero al dente, gentaglia gesticolante, vecchie bifolche dal nome strambo e pischelli che assaltano i fondoschiena per strada ( dice lo spettatore già vittima di “Letters to Juliet” e “The American”), perché dovremmo fidarci della trama ultranoiosa quando trasloca nell’oriente new age? Senza un boccone della grazia di Meryl Streep che si scioglie per il burro francese in “Julie & Julia”, la Roberts invoca mutamenti, esalta rovine, non dà retta a James Franco che le offre un’amorosa complicità post-amore, fa sesso per lubrificare le giunture e mangia il prosciutto con le mani. Vergogna.
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