Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
L\’ESTATE DI GIACOMO

urla il protagonista 18enne (giacomo Zulian, eccellente) che con un\’amica 16enne (Stefania Comodin, sorella del regista) sguazza nel fiume Tagliamento, nell\’assolata pianura friulana. Ma niente è più lontano dai mari televisivi di questo debutto rarefatto di un giovane autore che ha (e conserva) i toni del documentarista. Giacomo è sordo dunque parla strano, l\’alchimia con l\’amica (paziente, molto paziente) si sviluppa in un pomeriggio dalla durata onirica che fa da passaggio dall\’adolescenza alla maturità. I loro piedi si scontrano con ortiche e sentieri fangosi, i loro corpi si sfiorano in acqua e si stringono nella balera di un lunapark. Lunghi minuti ipnotici e pizzichi di retorica che sfidano la noia. Spesso la sconfiggono.

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CONTRABAND

Con la sua faccia da spaccone più o meno redimibile, Mark Whalberg continua a scegliere bene i ruoli d\’azione. Qui è un ex contrabbandiere costretto a tornare in attività da brutti guai capitati in famiglia e che rischiano di costare caro a sua moglie (Kate Beckinsale, in perenne fibrillazione). Un regista islandese gira il remake americano di un proprio film mostrando di saperci fare in trasferta: dalla melmosa New Orleans alla coloratissima Panama, si passa di porto in porto facendo il tifo per l\’eroe carico di dollari e in lotta contro tutti (afa compresa). Nota di merito per gli ottimi comprimari Giovanni Ribisi e Ben Foster. La distribuzione nostrana butta via un discreto thriller relegandolo nel deserto estivo. Comunque, amen.

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LA MEMORIA DEL CUORE

A causa di un incauto bacio al semaforo, una giovane e suo marito sono vittime di un grave incidente. Lui se la cava con qualche graffio, lei si riprende incerottata nel fisico e nella memoria. Non ricorda nulla degli anni recenti: crede che il marito sia il medico che l\’ha in cura e l\’unico amore che le è rimasto in testa è quello per il suo ex. All\’uomo che le è accanto – spesso relegato in situazioni che lo riducono al ruolo di estraneo all\’improvviso – tocca l\’arduo compito di farla innamorare per la seconda volta. Una trama alla Nicholas Sparks, ma senza Nicholas Sparks all\’origine. E\’ un complimento: sentimentale, ma non sentimentalista. Scarso uso di retorica e fazzoletti in favore di credibilità (il film è tratto da una storia vera) e frequenti sorrisi. Il che non vuol dire che sia privo dei mile indigesti difetti di questo genere di cinema. Ma la fragile Rachel McAdams e il belloccio in carriera Channing Tatum limano ogni tono sfiorando la magica intesa.

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PAURA 3D

Villa elegante (con orrida cantina) ben nascosta nella campagna laziale, sadico altoborghese che tortura giovani donne e accarezza vecchi motori, trio di giovanotti esaltati e sfortunati che passano dall\’euforia della notte brava in casa altrui all\’incatenamento degli arti e al fiocinamento di organi interni. I (miei) adorati Manetti Bros (s)Bavano di continuo, ovvero fanno le cose horror per bene, con l\’eterno difetto (iper-condiviso) di farla lunga quando il meglio sangue è stato spremuto e la sindrome splatter di Stoccolma è stata fin troppo annunciata. False soggettive, falsi movimenti, falso (ovvero inutile) 3D; attimi di vera tensione, ottime scelte nel cast: Peppe Servillo, la martoriata Francesca Cuttica, Domenico Diele, già efficace in ACAB. Non è un capolavoro, ma chi qui storce troppo il naso, davvero si aspetta dal cinema italiano un Artigianato sepolto da decenni in altre ville, in altri cimiteri.

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MARGARET

Il titolo rimanda a una poesia in cui una ragazza apprende cosa sia la morte. Nel film la protagonista (Anna Paquin) si chiama Lisa ed è una studentessa che attira involontariamente l\’attenzione del guidatore di un autobus (Mark Ruffalo) causando un incidente mortale. La giovane mente alla polizia, si contorce nel rimorso, si confronta con la madre, i professori, la migliore amica della defunta. Si droga di rabbia e altre sostanze. Invoca una verità che sfugge. La regia ne pedina la frustrazione in un\’angosciante opera oversize (ben oltre due ore). Se i molti volti noti – Matt Damon, Matthew Broderick, Jean Reno – vi sembrano giovani, è perché è un film del 2005.

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LOVE & SECRETS

Andrew Jarecki viene da un documentario (“Una storia americana”) in cui ripercorreva asciutto, attraverso i filmini da loro stessi girati, l\’assurda normalità di un padre e di un figlio stupratori di bambini. Qui fa l\’opposto: parte dai Super8 evocativi, ma tenta di dare una soluzione (con mano prodiga di sorprese e parrucche) a uno dei più celebri casi insoluti della storia dello stato di New York: la sparizione della moglie di Robert Durst, rampollo di una facoltosa famiglia dagli affari poco limpidi, accusato di omicidio ma ritenuto non colpevole dalla giuria. Jarecki cambia i nomi e azzecca il cast: Ryan Gosling ha lampi sfuggenti da lunatico innamorato; Kirsten Dunst il sorriso campagnolo da Cappuccetto Rosso pronta per il lupo.

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VIAGGIO IN PARADISO

Solo contro tutti: ex mogli, femministe (o più semplicemente: donne), minoranze etniche e religiose, Mel Gibson torna a fare al cinema ciò che gli riesce meglio: il ruvido Gringo rapinatore, con attimi tarantinati, che supera la frontiera col Messico, viene arrestato e finisce in una prigione/villaggio dove deve lottare per la propria sopravvivenza e per quella di un ragazzino (col vizio del fumo) il cui fegato è destinato al capo della violenta baraccopoli. Mad Max usa se stesso come arma letale e fa breccia nel lieto fine dopo un percorso brutto, sporco e non abbastanza cattivo (se il modello è “Fuga di mezzanotte>). Un Mel Gibson post-sé stesso. Muscoli da museo.

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MARILYN

Vestire i panni, il ruolo, i capricci e le titubanze della Monroe è assai difficile. Soprattutto per Michelle Williams, che poco le somiglia, a dispetto delle vampate di calore emanate a prescindere e dei languidi sguardi impasticcati che qui offre a un giovane sedotto (e abbandonato) in Inghilterra (Eddie Redmayne, che sgrana pupille in ginocchio), durante la difficoltosa lavorazione de “Il principe e la ballerina”, con un impaziente Laurence Olivier Branagh (). Norma Jean aveva ormai 30 anni, nessuna maturità, una vita da casa di bambola e un\’ansia da prestazione che la spingeva a seguire i \’metodi\’ di recitazione dell\’epoca (lei! che era solo magnetismo e zero dizione). Per interpretarla è più facile casomai toglierseli quei panni, come in effetti la Williams fa spesso nel film e Marilyn fece ogni volta che si sentì fragile: da ragazzina sognava di denudarsi in chiesa per cavarsi di dosso la divisa da orfana. Poi spogliò ai provini, sui calendari, (quasi) sulle grate del metrò, sul set de “Gli spostati”, abbandonata di Arthur Miller, e nell\’ultimo servizio fotografico in piscina: notturno eppure abbagliante: quasi uno straziante testamento gocciolante, prima che la ammazzassero i Kennedy (una dinastia di porci pronti a invadere ogni baia femminile, giustamente maledetti dalla Storia) per poi morire nuda e bambina. Come era sempre stata.

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MEN IN BLACK 3

Da dire ci sarebbe solo che i \’mostri\’ alieni sono sempre divertenti, a cominciare dal \’serious man\’ dei Coen Michael Stuhlbarg – capace di (pre)vedere ogni possibile futuro – fino ai soliti noti tramutati in insoliti marziani: Lady Gaga, Justin Bieber e tutta la drogata Factory di Andy Warhol (in realtà un man in black sotto copertura). Bravo anche Josh Brolin nel replicare all\’indietro la faccia e i modi squadrati di Tommy Lee Jones, perché qui tocca tornare al giorno della partenza verso la luna per evitare future disgrazie: salvare qualche protagonista (e ovviamente il mondo) approfittandone per spiegare eventi passati/futuri in odor di lacrimuccia in nero. In netto calo la verve di Will Smith (non è una novità), gradevoli la cotonatura del futuro agente O Emma Thompson, rispettose degli anni 70 le auto d\’epoca e i tiri a segno a Coney Island. Sarebbe tutto. Il filmastro fila via liscio su fanta-binari collaudati dal buon Barry Sonnenfeld. Ma nell\’epoca del rutto siderale “The Avengers”, questo terzo “Men in Black” – onesto e persino contenuto nelle sue fracassonerie improbabili; ancora acceso nel lumicino delle idee riciclate con qualche perizia – è un eminente capolavoro per contrasto. Non a caso il suo gradino più basso è ciò che maggiormente assomiglia all\’accozzaglia Marvel: il mostraccione mutilato Boris che fugge dalla luna alla ricerca dell\’arto perduto. Di fronte alla pochezza di sceneggiatura di “The Avengers” (che serve assist solo a Iron Man), le frecciatine anti-razziste di “Men in Black 3” sembrano Beethoven paragonato al fragoroso rotolare del (plurimo) supereroe di turno tra i bidoni dell\’immondizia scenografica e i calcinacci della sua stessa fama. Sarà perché ho visto le pellicole nello stesso cinema (il meraviglioso e sopravvalutato IMAX), sarà perché invecchiando ascolto più volentieri i toni bassi, sarà che non ho ancora portato il cervello all\’ammasso super-eroico… ma “Men in Black 3”, nella sua balorda ma gradevole interezza, mi è sembrato meno pericoloso dell\’orrido trailer del nuovo Spider Man nella sua balorda e sgradevole pochezza.

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IL DITTATORE

Non sarà questo piccolo/grande dittatore barbuto a far(mi) cambiare idea su Sacha Baron Cohen; eccellente performer del politicamente scorretto con la capacità di farti ridere di pancia una decina di volte a film e la tendenza a sbracare di brutto ogni volta che la butta sul sesso. Ma il simpatico fumo circonda un arrosto comico accanito nei modi quanto discontinuo negli esiti. Rispetto a “Borat” e “Brüno”, qui la trama tenta di strutturarsi meglio attorno alla delirante figura centrale: un satrapo ispirato a Gheddafi che vince a pistolettate Olimpiadi auto-indette, si noleggia Megan Fox, insegue un programma nucleare in cui la forma dell\’ordigno ha più importanza della sostanza e fa giustiziare (o lo crede) chiunque (tutti) ne disturbino i capricci. Va negli States per non perdere la faccia, invece perde la barba e il trono, sostituito da un sosia imbecille, manovrato dall\’infido Ben Kingsley. Ma la folgorazione per una donna e la democrazia – dopo aver tessuto un elogio della dittatura che assomiglia tanto al suo contrario – attorcigliano i discorsi del rais (non) redento facendolo sembrare un Michael Moore senza pretese da sit-in. Scena da antologia in elicottero, da vedere in lingua originale.

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