Morto un papa non se ne può fare un altro se l\’eletto è un uomo fragile che si sente inadeguato non solo al soglio di Pietro, ma al confronto con gli altri e con se stesso. Ovvero è un essere umano. Totalmente umano. Morto un Papa non se ne può fare un altro, neppure se ad assisterlo viene chiamato lo psicanalista ; perché siamo in un film di Nanni Moretti e Lui (Nanni, non il papa) emana dubbi da ogni ruolo in commedia e i ruoli sono tutti un po\’ suoi, e sia fatta la Sua volontà: piccole/grandi nevrosi condivise anche da chi sostiene di detestarlo, inquietudini puntigliose in cerca di un paradiso – possibilmente poco affollato – in cui perpetuarle all\’infinito.
Mentre il terapeuta rimane in Vaticano a insegnare con foga la pallavolo ai cardinali (la Chiesa non ha gradito), il paziente d\’alto rango viene trasferito alle cure della sua ex moglie. E sia reso merito al work in progress su se stessa dell\’ormai perfetta Margherita Buy: in cattedra dall\’altro lato del lettino, affibbiando ogni trauma adulto a , dopo aver scalato ogni gradino della cine-nevrosi.
Moretti ha già diretto un religioso in crisi (se stesso) in La messa è finita. E ha interpretato uno psicologo in La stanza del figlio. Ma queste affermazioni, sentite un po\’ ovunque da quando la trama di Habemus Papam è stata rivelata, sono banalità incomplete: Moretti ha sempre indossato la psicologia e la veste da buon samaritano frustrato. Sempre, da quando fa cinema.
All\’inizio ha praticato una strepitosa autocoscienza egocentrica che pretendeva – in senso buono, anzi divertente – di essere politica: flagellarsi di parole per non doversi confessare incapace di agire. In Sogni d\’oro, Freud è persino protagonista di una parodia della propria vita. Il padre che perde il primogenito in un incidente subacqueo e non riesce a impedire che il dolore travasi in famiglia e con i pazienti, giunge tre anni dopo la galoppata notturna di Aprile in cui Moretti celebra la nascita del figlio Pietro (Prodi era solo un pretesto). Come non cogliervi un timore rivolto al futuro, la sorpresa di una nuova ossessione in colui che in Bianca era incapace di relazionarsi persino con le piante, ma già dichiarava: ?
E non è forse la parte \’sociale\’ de Il caimano (quella non da tinello) uno slancio di psico/indignazione capace di mettere il naso curioso non solo negli affari, ma in pensieri, parole, opere e omissioni del Cavaliere? Anche al netto delle profezie – non impossibili, ma descritte con un\’esattezza che raggela – sull\’odierno assedio a un tribunale.
Dopo aver tanto scandagliato se stesso, tormentato gli amici, sbertucciato i critici, inseguito Jennifer Beals, seppellito il Pci (La cosa), infranta e poi resuscitata la famiglia, setacciata Roma, affogato lo sport (Palombella rossa) scampata la malattia (Caro Diario), esorcizzati il lutto e Berlusconi, a Moretti non restava che psicanalizzare la divinità. Non è credente, ma gli sono simpatici i preti. Ecco dunque un papa quasi laico. Alzando lo sguardo, Nanni e i suoi co-sceneggiatori (Francesco Piccolo e Federica Pontremoli) hanno di certo colto la serena non-necessità di alzare anche il tiro: si trattava di plasmare ancora una volta una depressione intelligente, un libero turbamento. Spiazzanti, ma non radicali. Fragili nella delicata sostanza, ma solidi nella forma: quella affidata allo splendido 85enne Michel Piccoli che ha negli occhi, nel passo e nelle rughe, la musicalità del mimo: madre pianista (francese), padre violinista (italiano), 225 film girati, giusta reincarnazione di Tati al prossimo festival di Cannes, dove Habemus Papam sarà in concorso.
E\’ un film che non si pone il sacro problema a monte: se un dio sia in ascolto, o in agguato. Perché ad affannare (molto) e a consolare (poco) il nostro percorso, sono le quotidianità e le idiosincrasie. E lo Spirito Santo, forse è solo una mano amica che muove le tende per simulare la presenza di qualcuno che non c\’è, come qui fa una Guardia Svizzera per ingannare i cardinali mentre il papa in fuga incontra la vita per le vie di Roma.
Dal funerale iniziale, che è quello di Giovanni Paolo II, approdiamo a una rappresentazione de Il gabbiano di Cechov che chiude – anche fisicamente – il protagonista in una gabbia che potrà spezzare solo compiendo il gran rifiuto che Dante attribuisce a Celestino V. Per viltade? Per evitare la vertigine di affacciarsi da quel balcone benedetto che viene inquadrato con maledetta angoscia e significa il tuffo negli altri che nessun personaggio morettiano vuole o è in grado di fare.
Habemus Papam finisce con la presa di coscienza di un fallimento, come era quello di don Giulio in La messa è finita. Se questo sia un messaggio di impotenza, o un\’autocoscienza matura e finalmente benefica, è il mistero di una fede non svelata che rimane – quanto mai prima in Moretti – affidato alla percezione di spettatori che è lecito temere più curiosi che numerosi. Perché le consuete gag esistenziali questa volta si perdono nella foschia emotiva, o sono affidate a caratteri macchietta come gli sciocchi cronisti televisivi. Rimarranno delusi coloro che speravano che il sempre meno autarchico Nanni facesse il diavolo a quattro in Vaticano. Quelli che, dalla poltrona del cinema, gli urleranno invano: .
(da DOMENICA de IL SOLE 24 ORE del 17 aprile)