Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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CARISSIMA ME

Una manager francese sente le farfalle nello stomaco (è un modo garbato per dire che ha l\’orgasmo) solo se strappa la miglior percentuale in un affare. Il suo fidanzato è peggio di lei: vivono sul filo di tempi strettissimi in giornate full business. Ma iniziano ad arrivarle letterine variopinte che lei stessa si è scritta quando aveva sette anni – l\’età della ragione del titolo originale – e che un ostinato notaio di provincia ha conservato fedele. La donna in carriera resiste all\’eco di un tempo in cui giurava che non avrebbe mai mangiato ostriche, nuociuto agli elefanti e che avrebbe sposato uno scavatore di buchi benefici per nascondervi tesori o comunicare con i bambini africani affamati. Un\’infanzia che ha rimosso, cambiandosi il nome e dimenticandosi del fratello, per affermarsi in modalità Margaret Thatcher (o Madame Curie, o Maria Callas, o Ava Gardner, o Meryl Streep). Anche se il miglior paragone per il suo sguardo è quello con Rossella O\’Hara quando sibila grintosa che non patirà mai più la fame. Inutile dire che il tarlo agreste fa breccia nella scorza cittadina e trionfano paesaggi pacchiani, aquiloni e quieto vivere stile Amélie. Il tempo delle mele sdolcinate affossa la maturità di Sophie Marceau: bella, brava e sprecata in un film stucchevole fino alla nausea.

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LA STANZA DEL FIGLIO

Il Moretti che non ti aspetti: in preda al dolore per la perdita di un figlio e non in balia delle consuete nevrosi e fobie. Trapiantato da quella Roma che si è sempre cucita addosso come una seconda pelle, all’estraneo mare di Ancona. Capace – finalmente – di un abbozzo di sesso con Laura Morante. E uno psicanalista immerso in un’angoscia muta che gli impedisce di essere doverosamente dedito alla petulanza altrui e ai suoi paziente variamente in conflitto col mondo. Un padre afflitto da un dolore onnisciente che, dopo la tragica morte del primogenito, trascina in un vortice gli affetti superstiti costringendo la famiglia a un incessante girotondo con la sofferenza. Scene di forte impatto e commovente intensità (la plastica che scoppia facendo da eco alle viti che chiudono la bara, l’impossibilità di una religiosa accettazione del fato) prima che un inaspettato intervento esterno (Jasmine Trinca) induca i protagonisti a mettersi in viaggio avendo come meta un nuovo incontro con la vita.

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LIMITLESS

Ricordate Keanu Reeves che si prepara alla lotta contro Matrix? Miliardi di nozioni gli vengono – letteralmente – impiantate in testa via software: dalle arti marziali a come pilotare elicotteri. Ci si ripensa perplessi mentre il protagonista, scrittore mollato da donna e ispirazione, in un lampo consegna il suo libro, impara a suonare il piano, a parlare ogni lingua del mondo (l\’italiano con pessimo accento) e si arricchisce con ultra-calcolati investimenti finanziari che destano l\’attenzione dello squalo/volpone De Niro. Il merito è di una pastiglia con cui l\’ha ingolosito l\’ex cognato spacciatore, divenuto \’consulente farmaceutico\’. Perché il nostro cervello è un motore/magazzino usato solo al 20% delle proprie potenzialità e blablabla ecc… Peccato che l\’ottimo Bradley Cooper ribaldo di “Una notte da leoni” e “A-Team”, non abbia ingollato nemmeno un milligrammo di sostanze utili a fare di lui una credibile presenza avida e disperata. Funziona solo quando si mette a fare pugni, ovvero quando il film deraglia. Peccato che il regista di “The Illusionist” sprechi su un soggetto che non regge fanta/soggettive, la magia allucinata di una macchina da presa che scandaglia corpi, ambienti e stati d\’astinenza. Il titolo mente: limiti tanti, pretese pure. Con accecanti passaggi di livello.

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LO STRAVAGANTE MONDO DI GREENBERG

Dopo 15 anni di assenza e una degenza in clinica psichiatrica, il falegname (non praticante) Ben Stiller torna da New York a Los Angeles per badare alla casa del fratello in vacanza in Vietnam (che per un americano è come per noi passare il prossimo agosto a Tripoli). E’ ombroso, irritabile, non guida, scrive lettere di protesta a chiunque, costruisce la cuccia per un cane (malato) che non ama. E’ ossessivo con l’amico (ex)sposato Rhys Ifans, si scusa con vecchie fiamme di episodi che loro hanno dimenticato e non si scusa con vecchi compagni di band di colpe che loro non dimenticheranno mai. E’ poco loquace col prossimo finché un mix di Zoloft e cocaina lo rende troppo blaterante a una festa giovinastra dove inneggia ai Duran Duran. Titolo e protagonista non facciano pensare a comicità demenziali o a una patacca kitsch di Wes Anderson. E’ un gioiello che brilla di azzeccata luce opaca, complice la straordinaria Greta Gerwig: insicura ma protettiva, femmina defilata in delicato chiaroscuro in cui affronta un umorale di 15 anni più vecchio che la cerca e la teme. Aiutato, sullo schermo e fuori, dalla moglie Jennifer Jason Leigh, Noah Baumbach firma un’amarognola commedia ebraica (yiddish) che parte silenziosa per poi riempirsi di sguardi e dialoghi intensi. Per Ben Stiller, il ruolo della vita.

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GOODBYE MAMA

Una madre, due figlie, una nonna malata di Alzheimer che scatena in loro sentimento opposti. L\’una si vendica di chi la scacciò, le altre la vogliono sottrarre alle vessazioni di un ospizio statale nella Bulgaria comunista. Scontro in tribunale, generazioni a confronto. Nevica retorica su sfondo storico saldamente antitotalitario, ma fortemente indigesto. Film didascalico (è un eufemismo) ispirato da una storia vera, ovvero quella della regista/interprete in persona Anche se fosse, tutto il resto suona fasullo: la recitazione da telenovela, le ambientazioni da telenovela, le frasi a affetto da telenovela. (In)evitabile premio patacca a Venezia.

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gran KICK-ASS

Finora ci eravamo fatti bastare Hancock, supereroe suo malgrado che insulta ubriaco le vecchiette. E persino il giocoso Green Hornet. Gente che non si lagna delle masse ingrate o di essere super-diversa. Da oggi il nostro idolo è il nerd mascherato Kick-Ass: uno che le prende quando affronta i criminali perché il suo unico superpotere è essere invisibile alle ragazze. E\’ ingenuo, ottimista, ritrova gatti smarriti. Ma YouTube lo mitizza. Ha la geniale intuizione di mettersi un goffo costume da subacqueo e si smaschera mascherandosi. La madre è morta a picco nella zuppiera, lui consuma Kleenex fantasticando sulla prof, l\’amata non lo considera (o se lo fa è perché lo crede gay). I ragni radioattivi lo ignorano. Non viene da un pianeta distrutto. Ma fa gli incontri giusti: il simil-Batman Big Daddy (l\’ex poliziotto Nicolas Cage) e sua figlia Hit Girl, che sembra concepita con la Sposa di Tarantino. Memorabili incontri e scontri bambocci con Red Mist, rampollo non abbastanza kattivo di un kattivo da fumetto. Scene crude in esplosiva scia a John Woo (citato), spassoso ass-kicking ai superluoghi (comuni). Da sempre volevamo sentir dire che: è una ca… pazzesca. L\’ideatore di “Wanted” (wow) & il regista di “The “Pusher” (wow!). Stracult.

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SORELLE MAI – sorelle sempre

Il difficile è rimetterli in tasca, i pugni.
Farlo 50 anni dopo averli sfoderati in un film che è stato (e rimane) un colpo allo stomaco inferto a se stesso e all\’Italia familista tutta: la necessità di spezzare le reni a un\’istituzione, a un\’appartenenza, a legami di sangue vissuti come vincoli da recidere metaforicamente (e fisicamente) nel sangue. Nel 1965, un allucinato Lou Castel in bianco e nero, sterminava la famiglia borghese nel paese, nella casa e nell\’opera prima di Marco Bellocchio. Oggi – o per meglio dire, nel corso di un decennio, essendo Sorelle Mai un work in progress che va dal 1999 al 2008 – Bellocchio è tornato a girare a Bobbio e nelle stanze che covarono quel livore. Complici gli studenti del Laboratorio di Fare Cinema, ha realizzato sei episodi concatenati che hanno per protagonisti le sorelle anziane del regista, Letizia e Maria Luisa, il figlio maggiore Piergiorgio e la figlioletta Elena.
Parenti che diventano personaggi, caratteri simbolici e identità reali che si sovrappongono e si confondono in questo struggente ritorno volontario che raramente prova a prescindere da se stesso, e quando ci prova, quando si inventa improvvidi sentieri secondari, subito vi si perde (la scena degli strozzini) come fosse un Pollicino disorientato che non ritrova le sue briciole.
Ogni figura principale è comunque carne della carne di Bellocchio, gente sua, sua memoria. E\’ una pacificazione questa? Un pentimento? Il pellegrinaggio intellettuale di chi ieri si unì al grido di André Gide () e oggi, che ne ha una propria, inclina in modo diverso lo sguardo verso quei ?
Bellocchio non cerca una riconciliazione, ma trova in sé l\’affetto. Su queste ottuagenarie Sorelle Mai (nel film, l\’avverbio fa anche da cognome) si stende la mano dell\’uomo e del cineasta che ne contempla lo stato di sorelle sempre. Che celebra infine con condiscendenza la mancanza di alternative che loro stesse raccontano con rassegnato pudore: generose nel dare, spassose nel pretendere la cappella mortuaria mettendo a repentaglio un affare al cospetto del notaio, amabili dinosauri di un costante non-divenire in un nido sicuro, il guscio che Bellocchio ha voluto spezzare. L\’antico astio ribelle lascia il posto alla compassione e persino alla dedica, ma senza mai rinnegare l\’arte che da quella rottura è derivata.
Sulle rive del Trebbia assistiamo ad arrivi e partenze: l\’aspirante attore primogenito (nonché aspirante fidanzato) si trattiene sempre meno di quanto programmato, sua sorella (Donatella Finocchiaro) si dibatte a Milano in cerca di fortuna, la bambina cresce bellissima. Un\’opera lirica rintocca immutabile ogni estate. Il sabato del villaggio promette baci che restano solo nella memoria di chi resta. La vecchia casa muta dimensioni, germoglia in sé nature morte che sfuggono all\’inquadratura, ospita eterni amici in visita, una professoressa immatura (Alba Rohrwacher) e spezzoni de I pugni in tasca: saltuaria irruzione nei luoghi dell\’antico delitto.
Sorelle Mai è un\’opera dalla sostanza intensa che ha scelto – il perché lo si è già accennato – la forma del filmino, come ci piace chiamare le preistoriche riprese dell\’infanzia: un diminutivo che è già una carezza. E\’ una forma frequente nel nostro cinema, è suggestiva, evocativa, forse la più adatta alle ombre del ricordo. Mezzi poverissimi, costo zero. ha detto Bellocchio. Che è un Maestro e può concedersi il lusso di quel diminutivo – filmino – che è anche un vezzo: un chiaroscuro spesso ostico, un abile home movie che trovare le puntuali lodi di chi vi scorge il fulmine di illuminanti situazioni registiche (Herzog ce ne infligge da anni). Ma presta anche il fianco tecnico al dispetto chi non ama guardare il cinema dalla porta della palestra, vittima di quello che – fuor di comicità, ma non tanto – Checco Zalone chiama il tremuizzo d\’autore.
E\’ infine un commiato da un luogo e da un tempo, quello di Bellocchio? Lo splendido finale lo lasca intendere: solenne, malinconico, fluviale. Su note che sono memoria condivisa e non più soltanto del regista: Modugno più di Cechov: un lirico vecchio frac indossato da un addio.
Sorelle Mai non sarà l\’ultimo film di Marco Bellocchio, già lo splendido e sottovaluto Vincere gli è in realtà posteriore. Ma quello più intimo e definitivo sì.
(da IL SOLE24ORE, marzo 2011)

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POETRY

C\’era una volta un tipo tardo che esce di prigione e conosce una disabile non autosufficiente. Entrambi sono detestati in famiglia. Sembra che la stupri selvatico, ma quel corpo sgrammaticato reagisce con spasmi crudi che si trasformano in dedizione. Lui la chiama Principessa, lei mugugna poesia e lo ribattezza Generale. Tubano al telefono, vivono una gracile passione intensa che annulla ogni diversità. Ma non ci sarà amore negli occhi di chi li guarda. Chi poteva raccontare una storia così? Solo un Maestro d\’oriente. Uno vero, non l\’ennesimo giocoliere (di solito horror) incensato da critici col torcicollo a est. Il coreano Lee Chang-dong tesse un altro capolavoro: primi piani che fluiscono nell\’anima, albicocche marcite come in un giusto tramonto. Una badante sull\’orlo dell\’Alzheimer tenta di trovare in sé (e a lezione) la poesia che insegue dai tempi della scuola. La figlia è lontana, il nipote vive chiuso a riccio tra coperte, amici e tv. Si è messo in un brutto guaio: usa il pisello o un hula hoop come fossero solo questione di corpo. Ancora un invalido e una sessualità ostica. Gocce di pioggia sulla pagina bianca. La signora delle camelie sboccia in inverno: una sensazionale attrice da anni lontano dalle scene.Voce fuori campo che illumina d\’immensa serenità e non di retorica (vedi: “Non lasciarmi”). Opere così fanno pensare di essere nati dal lato stucchevole del mondo.

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IL RITO

Babbo Rutger Hauer (infernale in “The Hitcher”) gli ha insegnato solo a pregare e a ricucire cadaveri, compreso quello di sua madre. Ovvio che il ragazzo sia cresciuto ateo e turbato. Ma sceglie il seminario: pur di andarsene di casa molti si sposano, lui rischia il celibato. Sta per mollare, ma tragici eventi lo risucchiano in Vaticano come apprendista esorcista. Trafficati luoghi comuni romani e cancelli stridenti, scaloni a spirale e architetture in stile Argento rispolverato (vedi anche la giornalista prezzemolina Alice Braga). Anthony Hopkins pratica esorcismi preventivi sulla figliola incinta della Cucinotta. Hannibal in tonaca risponde al cellulare \’sul lavoro\’ e sfotte il film capostipite: . Ma torcicollo e liquame arrivano a breve. gracida l\’uomo (in) nero. Ma chi ha visto “Requiem”, sana versione tedesca de “L\’esorcismo di Emily Rose”, sa che non è vero. Lo scetticismo scricchiola tra noie immonde e sbalzi (con) temporali: prima un\’alba radiosa, poi tuoni e fulmini a comando. Il vile vilipendio crede di cavarsela insultando solo lo Spirito Santo. Ma Gesù disse: (Tommaso, 49). E così sia.

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THE FIGHTER

Massachusetts, anni 90. Il boom industriale ha lasciato il posto a disoccupazione, fuga nel crack e strade da riasfaltare (la prima di tante metafore troppo bitumate). Nemmeno semi-consumato dalla droga, Christian Bale riesce a sembrare maggiore di Mark Whalberg (che ha tre anni di più e si vede), ma in un ruolo ossuto dà sempre il meglio di sé – vedi “L\’uomo senza sonno” – conquistandosi un giusto Oscar come miglior non protagonista. Statuetta anche per la parassita madre/manager Melissa Leo di “Frozen River” (recuperatelo!). I due sono pugili. In acclamate passerelle di quartiere, il primo campa di rendita per aver messo al tappeto Sugar Ray Leonard (che forse era scivolato) e sulla scarsa gloria del fratello che allena poco e male, mandandolo al massacro contro avversari di diversa categoria per non perdere la borsa. Arriva la barista Amy Adams e il torello si scatena, anche contro la famiglia. La storia e è vera, ma così romanzata alla “Rocky” da sembrare fasulla. Finché può sta alla larga dalle mazzate sul ring (difficili da riprendere), ma non risparmia colpi sotto la cintura retorica del volemose bene. Imballato con e senza guantoni, Mark Whalberg incassa insulti e montanti spacciandola per tattica. Micky Ward, campione dei pesi welter nel 2000, dovrebbe far(si) giustizia.

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