Dopo 15 anni di assenza e una degenza in clinica psichiatrica, il falegname (non praticante) Ben Stiller torna da New York a Los Angeles per badare alla casa del fratello in vacanza in Vietnam (che per un americano è come per noi passare il prossimo agosto a Tripoli). E’ ombroso, irritabile, non guida, scrive lettere di protesta a chiunque, costruisce la cuccia per un cane (malato) che non ama. E’ ossessivo con l’amico (ex)sposato Rhys Ifans, si scusa con vecchie fiamme di episodi che loro hanno dimenticato e non si scusa con vecchi compagni di band di colpe che loro non dimenticheranno mai. E’ poco loquace col prossimo finché un mix di Zoloft e cocaina lo rende troppo blaterante a una festa giovinastra dove inneggia ai Duran Duran. Titolo e protagonista non facciano pensare a comicità demenziali o a una patacca kitsch di Wes Anderson. E’ un gioiello che brilla di azzeccata luce opaca, complice la straordinaria Greta Gerwig: insicura ma protettiva, femmina defilata in delicato chiaroscuro in cui affronta un umorale di 15 anni più vecchio che la cerca e la teme. Aiutato, sullo schermo e fuori, dalla moglie Jennifer Jason Leigh, Noah Baumbach firma un’amarognola commedia ebraica (yiddish) che parte silenziosa per poi riempirsi di sguardi e dialoghi intensi. Per Ben Stiller, il ruolo della vita.
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