Dopo un mediometraggio d’esordio, il primo ‘vero’ film di Quentin Tarantino, l’uomo che ha cambiato l’idea dei film d’azione violenta – e quella del Cinema stesso (Gran Rifrullatore, ormai sterile ma prolifico) all’inizio degli anni 90. Eventi incastonati a mosaico e non in successione (con largo uso di flashback), crudeltà esplicite nell’immagine quanto motivate nelle anime, grande efficacia teatrale nel gusto per dialoghi che divagano (qui le ‘tirate’ su Madonna, le mance e i colori come nomignoli), e nella scelta di perfette facce da cinema scorbutico, umorismo sferzante che fa a pugni con destini cupi. Qualcuno ha ‘cantato’ e la rapina a un grossista di gioielli è andata male. Dei sei componenti la banda, un paio sono morti, uno è ferito, un altro è uno psicopatico che ha preso in ostaggio un poliziotto e si appresta a torturarlo per conoscere il nome del traditore. In un capannone si attende l’arrivo del capo e si scatenano le vendette. Tensione a mille, rigore mirabile, autorevolezza e fantasia da cineasta consumato: Genius Quentin, capolavoro di compattezza. Compare in ruolo defilato. Sulla riblata: Tim Roth, Harvey Keitel, Steve Buscemi, Michael Madsen, Chris Penn, Lawrence Terney. Okkio agli indizi sui colori, alle sigarette non fumate, agli errori da basso budget, alle traiettorie dei proiettili, al palloncino che svolazza, a ciò che cade al (nel) volume dopo il finale.