Storia vera, storia triste. Portata dal Sudafrica da un volgare sfruttatore, tenuta in gabbia o esibita in oscene danze tribali, vittima dei vizi altrui fino ad affogare nei propri, ecco The Elephant Woman, a Parigi, nel 1810: natiche immense a cui aderisce un abito che nulla cela del lato B e suscita malcelata curiosità per il resto. Sbavarono tutti: gli scienziati che la credevano una specie di orango, i salotti borghesi, gli allupati dei bordelli e quelli delle fiere con i \’mostri\’. Sbava anche lo spettatore? Il regista franco-tunisino de “La schivata” (capolavoro) e “Cous Cous” (quasi), circumnaviga per 150 minuti la sua straordinaria protagonista (cubana) con la macchina da presa, oggetto \’stupratore\’ per definizione ideologica. E\’ curioso? Morboso? Compiaciuto e dunque pornografo col pretesto di vedere quanto siamo voyeur e razzisti? Una furtiva lacrima si fa disperazione e rovina la \’carriera\’ della Venere ottentotta – alta in realtà 150 cm – il cui scheletro ha riposato in un museo (sigh) prima di essere restituito all\’Africa nel 2002. Kechiche è un regista di fede realista, non un regista in cattiva fede. Sa che può indirizzare il nostro sguardo e il nostro sdegno. E che si è complici dell\’orrore solo volontariamente. Oppure inconsciamente. E quindi volontariamente.
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