Una lapide sul ramo del lago Maggiore ricorda i 56 ebrei rinchiusi (settembre ’43) nell’albergo del titolo dalle SS che li trucidarono. L’85enne Carlo Lizzani, decano del lucido cinema d’indagine storica su quell’epoca (“Achtung! Banditi!”, “Cronache di poveri amanti”, “Il processo di Verona”, “Mussolini ultimo atto”), esprime la tragedia con le armi del cinema classico: rapidi fendenti di immagini e concetti in bella fotografia. Qualcosa spiega, qualcosa romanza (la tedesca buona), qualcosa tenta di trasmettere: senso di incertezza e di claustrofobia. Sta alla larga dalla lussuosa politica cinematografica di Visconti e cita quella europeista di Spinelli e quella poetica di Montale. Così gli riesce solo di dire ciò che – oggi, in Italia, narrativamente – non siamo, ciò che non vogliamo. Rimane tiepido, impalpabile, corretto, scorrevole senza morso.
