Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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HOTEL MEINA

Una lapide sul ramo del lago Maggiore ricorda i 56 ebrei rinchiusi (settembre ’43) nell’albergo del titolo dalle SS che li trucidarono. L’85enne Carlo Lizzani, decano del lucido cinema d’indagine storica su quell’epoca (“Achtung! Banditi!”, “Cronache di poveri amanti”, “Il processo di Verona”, “Mussolini ultimo atto”), esprime la tragedia con le armi del cinema classico: rapidi fendenti di immagini e concetti in bella fotografia. Qualcosa spiega, qualcosa romanza (la tedesca buona), qualcosa tenta di trasmettere: senso di incertezza e di claustrofobia. Sta alla larga dalla lussuosa politica cinematografica di Visconti e cita quella europeista di Spinelli e quella poetica di Montale. Così gli riesce solo di dire ciò che – oggi, in Italia, narrativamente – non siamo, ciò che non vogliamo. Rimane tiepido, impalpabile, corretto, scorrevole senza morso. scrive Kezich. Esatto. Noi crediamo che ai fantasmi vada ridato scheletro, se no si estinguono.

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QUESTO PICCOLO GRANDE AMORE

Quella trama fina fina della canzone di Baglioni (1972) è il filo conduttore dell’amore-troppo-amore tra la pariolina e il borgataro nella colorata Roma che sogna la pace nel mondo, la rivoluzione sessuale e le fontane a Centocelle. Quasi un musical di noialtri con sfondi e oggetti vintage: danzatori a bordo Tevere (che scorreva lento lento), adora(n)ti volti nelle nuvole e in immagini/karaoke, maglioncini coi rombi e basette, naja e gettoni telefonici a separare i cuori infranti. Perché lui sul più bello, come Totò, va a fare il militare presso Cuneo: servono lontananza e brutti equivoci per spingere la storia alla fatal Porta Portese. Il bacio a labbra salate e l’amore giù al faro (tiamodavvero/tiamologiuro recitati con intensità da fotoromanzo) saranno solo un ricordo. Emanuele Bosi ha molto di Scamarcio e qualcosa di Baglioni giovane: viene dal “Romanzo criminale” di Sky, la miglior fiction nostrana da secoli. E da tanta altra tv cosi/così, come la raffaellesca Mary Petruolo e il regista Riccardo Donna. I ragazzi snocciolano retorica rosa, i genitori trite preoccupazioni borghesi e qualche Verità () utile a introdurre un inaspettato finale che assomiglia alla vita e non al cinema gggiovane tricolore.

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MAR NERO

Ilaria Occhini (bentornata!) è Gemma, un’anziana fiorentina vedova e scorbutica che si sente trascurata dal figlio Corso Salani e dalla nuora: vivono lontano, a Trieste, e le sembrano avari di abbracci. Continua a chiamare la nuova badante arrivata dalla Romania con il nome della precedente: un diffidente rifiuto che si muterà – via via – in affetto, nostalgiche confidenze, slanci antirazzisti e persino complicità. Quando la ragazza vorrà tornare a casa a causa dell’improvviso silenzio del suo uomo, la seguirà col suo bagaglio di consigli. L’opera prima di Federico Bondi, ispirato da una vicenda di famiglia, procede su un binario narrativo ultra-scontato con passo rarefatto che sposa i primi piani teatrali e gli stereotipi. L’espressiva Dorotheea Petre ricorda la nostra Maya Sansa. Ilaria Occhini, premiata a Locarno, sa mettere in tavola pose da grande attrice: sublimi spontaneità senili a ridosso, ma non al altezza, di quelle di “Pranzo di ferragosto”.

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TUTTI INSIEME INEVITABILMENTE

L’inizio funziona: Reese Whiterspoon e Vince Vaughn, ben affiatati in commedia, demoliscono matrimonio e procreazione al cospetto di allibiti sposini (). Fingono di abbordarsi nei locali per correre a consumare in bagno, dicono alle rispettive (doppie) famiglie che fanno volontariato all’estero per evitare i pranzi natalizi. Ma quando la nebbia cala su San Francisco e un’inquadratura tv li inchioda in aeroporto in camicia hawaiana, devono sottostare al tour de force del 25 dicembre. Dall’ottuso babbo reazionario Robert Duvall impazzano due maneschi fratelli tatuati (Jon Favreau!), una nuora incinta, pessime ricette e paraboliche cadute dal tetto. Da Sissy Spacek, il figliol prodigo suo malgrado deve assistere alle allupate effusioni di mammà col suo (ex) migliore amico. Dall’altro lato del parentado incombono zie arrapate e una sacra recita del presepe. Ovunque riemergono nomignoli, chili e passate psicosi che mettono in crisi il presente della coppia. Capolinea dal saggio genitore Jon Voight quando il carosello ha perso smalto e il finalaccio accomodante è in agguato. Godibili peripezie (anti?)natalizie da noi maldestramente distribuite a gennaio, a cine-panettoni (mal)digeriti.

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FROZEN RIVER

Il fiume ghiacciato del titolo è il San Lorenzo che segna il confine tra Stati Uniti e Canada: abeti, bianche distese improvvisamente fragili, una riserva indiana con leggi proprie (sono i Mohawk) che funge da terra di nessuno solcata dal contrabbando. A pochi giorni da Natale, tra gelide case prefabbricate in combustione, squallidi motel e nuove sistemazioni sognate, si incontrano due disperazioni: quella di una ‘nativa’ che ha dovuto rinunciare al suo bimbo, e quella di una bianca abbandonata dal marito giocatore con un figlio piccolo e un adolescente arrabbiato. Un furto le fa incontrare: si conoscono sotto reciproca minaccia di una pistola, poi il bisogno di denaro per la famiglia le unisce. La prima ha un portabagaglio capiente, la seconda le giuste brutte conoscenze. Porteranno clandestini orientali oltreconfine fino al dramma finale, innescato da un mezzo miracolo e reso (molto) più dolce dal buon senso di sacrificio. Solo la strepitosa Kate Winslet di “The Reader” meritava l’Oscar più di Melissa Leo: splendida 50enne di sfatta bravura (era la moglie di Benicio Del Toro in “21 grammi”). Al suo fianco, l’ostinata efficacia di Misty Upham. Scrive e dirige l’esordiente Courtney Hunt, capace di affrescare marginalità e sentimento.

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THE READER

Nella Berlino del dopoguerra, un 15enne sta male per strada. Una donna lo soccorre ruvida. Guarito, il ragazzo ritorna. Lei lo manda a prenderle il carbone: seguono doccia e seduzione. Lo precipita nell’amore esercitando un possesso rabbioso, eppure indifferente. Una ‘terribile’ scena nella vasca scolpisce i rispettivi tormenti. Il giovane, che si crede un buono a nulla in famiglia e a scuola, apprende sesso e passione ricambiando con letture a voce alta. Lei esige l’Odissea, Orazio, Cechov e – scandalizzata – L’amante di Lady Chatterley. Poi sparisce, lasciando un mutilato affettivo. Anni dopo, un processo: lui futuro avvocato, lei imputata come ex kapò: manovalanza nazista rivendicata con malinteso senso del dovere. Un segreto le ha rovinato la vita, lui è il solo a conoscerlo. Ricomincia a leggere per lei… Il regista e lo sceneggiatore di “The Hours”, meravigliosa pellicola da maneggiare con cautela, trovano in Kate Winslet (Oscar sacrosanto) fisico e sguardi giusti per un denso allestimento drammatico che nella prima mezz’ora tocca picchi di perfezione. Il bravo David Kross cresce nel solito dolente Ralph Fiennes. Il non sempre credibile analfabetismo di una donna si fa simbolo e condanna di una nazione che si pretese cieca. Ultima parola alle vittime.

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UNDERWORLD – LA RIBELLIONE DEI LYCANS

Come ogni saga a caccia di rispettabilità dopo un buon incasso, anche “Underworld” si è costruito un prequel che gli faccia da preistoria, anzi da Medio Evo dark: boschi, armature, balestre, castelli arroccati e prigioni segrete per ospitare l’oscura alba della lotta tra i kattivi vampiri (molto eleganti le signore) e i licantropi loro schiavi, la cui trasformazione può essere bloccata. Come ogni saga a corto di fantasia, si è aggrappata a Shakespeare: la figlia del capo dei non-morti ama il proibito pupillo del babbo: il lycan più geneticamente forte, anche se interpretato dal gracile Michael Sheen di “Frost/Nixon”. Guiderà la ribellione dei suoi (mica tanto) simili, dopo che l’incauta Rhona Mitra è stata scoperta e castigata da babbo Bill Nighy: il rinsecchito Viktor che ritroveremo secoli dopo. I fan si godano l’aggancio, gli altri le feroci creature mannare agitate da un regista che viene dagli effetti speciali. Tutto il resto è un pozzo di noia.

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COME DIO COMANDA

Negli operosi non-luoghi del nostro nordest – cave, discariche, centri commerciali – si agitano la frustrazione di un lupo solitario nazi/alcolizzato, quella del suo cucciolo troppo solo che lo idolatra e scrive temi hitleriani (ma è tentato da Robbie Williams) e quella del pazzoide del paese che allestisce un folle presepe e si masturba con l’aiuto del televisore a cui ha aggiunto mani di gomma. La sua passione per una pornostar caccerà i tre in una notte buia e tempestosa che spurga morti, feriti e destini segnati. Dopo “Io non ho paura”, lirico e struggente come una canzone di André, ricco di azzeccati animali notturni da fiaba e bestie diurne da tinello, Gabriele Salvatores ci riprova: ancora un best seller di Niccolò Ammanniti (asciugato lasciando sgocciolare troppe falle), ancora un bravo attor giovane: il 15enne Alvaro Caleca che sembra scelto da Pasolini. Ma s’impantana nella nottataccia e nei caratteri (vedi Fabio De Luigi fuori tono). Si smarrisce nervoso, sceglie vicoli ciechi scambiandoli per torbidi, non sa uscirne, alza la musica, sbatte. Stephen King e Lynch disinnescati. Forse stavolta la dedica è a quelli che non sanno fuggire. Film inesploso, con Filippo Timi ed Elio Germano troppo shakespeariani. Film sbagliato. Può capitare.

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RACCONTO DI NATALE

Fa tappa a Roubaix, città del regista, il dramma di famiglia che attende peccati e peccatori al varco del cenone sotto l’albero: rancori, sfoghi e malattie. Che qui sono passato e futuro doloroso: nessun trapianto compatibile ieri per un figlio (un bis fu partorito invano per l’uso e poi detestato) e due possibilità in casa ora che a essere condannata è la madre. E’ il genere di cinema ringhioso/sdolcinato che agli europei riesce raramente e agli americani quasi mai. Nonostante 150 minuti che andavano asciugati, Arnaud Desplechin fa centro: dialoghi feroci e sinceri fino al (e sul) midollo, ispirato cozzare di nuore (quasi) sbagliate, adolescenti psico-turbati, eterni amori contemplativi, ex mariti in fuga dal presepe umano che si scazzotta e persino una vecchia lesbica patriarca. Benvenuti sulla montagna disincantata dell’armonia famigliare impasticcata, Arcadia innevata su cui regna la splendida Giunone che ama il buon marito/rospo molto più dei figli: coppia vogliosa di una cappa di noia (e sesso). La pecora nera, alcolico personaggio mitologico/letterario che sa di essere tale, è Mathieu Amalric, , tra i miglio attori del pianeta. Satelliti all’altezza: Catherine Deneuve, Anne Consigny, Emmanuelle Devos, Chiara Mastroianni.

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BABY LOVE

Pediatra e zio perfetto, un gay parigino 42enne (Lambert Wilson, che viene dai “Matrix” e da Resnais) scopre di avere bisogno un futuro popolato da un figlio. Il compagno lo molla, la legge francese sulle adozioni gli è contro, la commedia etero a beneficio dell’assistente sociale finisce male: non basta gettare i libri sui greci e la discografia di Dalida se si lasciano in vista foto compromettenti. Che fare? Ci sarebbe la graziosa spagnola conosciuta in un incidente d’auto… Si farà tamponare per una buona causa? Lei la prende male, la sorella del protagonista peggio () e lui stesso ha un ulteriore problema fisiologico. Tono leggero con complicazioni accanite quanto prevedibili: madri surrogate, cadute nel ‘vizietto’ (che per Tognazzi era andare con le donne), matrimonio di convenienza ma non solo, gelosie, ritorni di fiamma, parto frufru condiviso. E apprendiamo che il contrario di ‘gay represso’ è ‘etero inibito’. Se si riesce a non pensare come l’avrebbe giostrato Almodóvar, che avrebbe adorato la battutaccia finale della collega ‘normale’ quanto sola, il sorridente melodramma spesso funziona. E’ Natale dentro la trama e fuori, inutile aspettarsi attimi di brutte verità.

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