Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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AGENTE SMART

Acrobatici impacci, maldestre esplosioni, efficaci balordaggini. Nipoti di una mitica serie tv anni 60 (by Mel Brooks), resuscitata oggi dal regista dell’ultima ‘pallottola spuntata’. Geniale sottotitolo italiano per sfottere 007: “Casino totale” per “Casino Royale”. L’ometto del titolo è una formidabile/pedante spia/analista di CONTROL, ma un inetto nella pratica. Quando i nemici (KAOS) gli distruggono il quartier generale, tocca a lui volare a Mosca per fermare traffici d’armi, prendere improbabili decisioni vitali, saltare da palazzi in fiamme (il marciapiede è a mezzo metro), usare il proprio archivio di benedette intercettazioni (ops) per volgere a proprio favore i problemi famigliari del kolosso che sta per spiezzarlo in due. Ovviamente l’omino è Steve Carell: perfetta goffaggine con sprazzi di acume a perdere. Gag incostanti e parodie déjà-vu, ma ci si diverte. Al suo fianco: The Rock e Anne Hathaway: profilo da Cleopatra, passo sexy, mira decisa e buon talento da spalla comica in azione. Forse appresa dall’ex fidanzato italiano, il frizzante finanziere che teneva in ufficio abiti da vescovo da indossare per millantare aderenze vaticane, poi svenuto con teatrale scelta di tempo quando il giudice gli ha fissato la cauzione a 21 milioni di dollari.

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IDENTITA’ SOSPETTE

Cinque uomini si risvegliano in un fatiscente e blindatissimo (dall’esterno) stabilimento chimico. Uno è ferito e ammanettato, uno legato alla sedia, uno ha il naso rotto, gli altri due sembrano aver lottato. Non capiscono cosa sia successo, non si riconoscono allo specchio, non sanno chi sono. L’inizio ricorda “Saw”, ma i deboli di stomaco non temano: possono rivelarsi forti d’ingegno senza dover assistere ad atrocità. Solo furibondi scatti d’ira, fomentati da lampi di memoria, alla ricerca della propria identità. Chi sono i due ricchi rapiti? E chi i sequestratori? Intanto il resto della banda è in arrivo con il riscatto (la polizia insegue) e una sinistra buca è già pronta fuori, nel deserto ormai messicano. Claustrofobia e rabbia, poi due colpi di scena finali. L’uno alla portata di coloro che sanno bene di cosa abbia sempre bisogno un poliziesco, l’altro di chi si è posto la domanda/chiave del giallo classico: cosa c’entra quel personaggio? Film del 2006, usato d’estate a mo’ di fondo di magazzino, ma l’intelaiatura regge, la psiche funge e la durata non è punitiva. Nobilitano l’opera prima di Simon Brand (è il medico): James Caviezel, Greg Kinnear, Barry Pepper, Peter Stormare e l’abbagliante Bridget Moynahan di “Io, Robot”.

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ALBAKIARA

Sullo sfondo la canzone di Vasco, attualizzata con la K degli sms e della ketamina. In scena il figlio di Vasco, bei pettorali da dj sfacciato che fa sesso on line e finisce torturato a mo’ di “Hostel” da un Raz Degan retrocesso di 20 anni nella carriera. In regia Stefano Salvati. Ha firmato molti videoclip di Vasco (ma anche quello di Venditti con la 16enne Jolie e di Zucchero con la baby Cucinotta). Ma del Vasco rock/pensiero poetico ringhiante non c’è nulla in questo guazzabuglio di giovanilismo, erotismo e thriller/noir che sembra scegliere la caricatura perché incapace di disegnare. Vito fa il bidello spacciatore, Alessandro Haber il patetico salumiere tirato dentro nel colpaccio del nipote, Laura Gigante esulta per aver trovato la bamba nelle confezioni di zucchero a velo e mette su un rave da b-movie: personaggi sopra le righe a cui non è stato spiegato come farsi le righe in modo credibile (né il sesso orale in serie nel parcheggio della disco). Pinocchio invece di Lucignolo, dialetti al posto della dialettica, superficialità nel descrivere la superficialità. Idee videoclippare: ecstasy calata a mo’ di Pac-Man e schermo plurimo aggravato. Per arrivare a ci vuole ben altro che credersi il Tarantino di noialtri.

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SPLICE

dice l’hacker genetico Adrien Brody alla compagna di vita e di azzardati esperimenti di laboratorio Sarah Polley (splice significa montaggio/assemblaggio). La stagione cinematografica riprende là dove l’avevamo lasciata: dallo sguardo del pianista/torero triste rivolto a minacce mostruose. Dopo i feroci extraterrestri di “Predators”, gli tocca la creatura nata miscelando il Dna di due informi entità animali (Ginger e Fred), destinata a fare da brodo di coltura per una vitamina, ‘contaminata’ dalla madre adottiva: genitrice mancata e figlia maltrattata: miscela morbosa ad alto rischio. Il feto cresce rapido e in segreto: da pollo-sauro anfibio a sexyBarbie calva con forti appetiti e velenosa coda a pungiglione. Lui tenta di ucciderla, poi è sedotto dalla sinuosa creatura con passo da struzzo in arrapanti abiti chic. Ma presto si incattivisce, spalanca le ali, cambia sesso… Trama perversa, ma il fanta-horror di Vincenzo Natali, già astruso babbo di “The Cube”, funziona. Delphine Chaneac è un’inquietante chimera in carne e ossa che fa di tutto per sembrare digitale.

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SAW VI

L’Enigmista è morto da tre episodi, ma devoti esecutori testamentari ne continuano la feroce opera punitiva contro chi non dà il giusto valore alla vita. Qui il suo ultimo (?) erede, il detective troppo sedotto dal lato oscuro della vendetta, deve far scattare le ultime (?) trappole/serraglio mentre sfugge ai sospetti dei colleghi e un altro personaggio – tutt’altro che inaspettato, anzi atteso – vuole eliminarlo per gestire in prima persona lame e affari di famiglia. Il lugubre Tobin Bell sopravvive in flashback che faranno la felicità di Obama e della sua riforma della sanità yankee in mano ai cinici interessi delle assicurazioni (ce n’è anche per chi fuma). Il sesto film sulle (post)gesta della maschera horror più azzeccata del decennio campa (ops) di rendita perché può permetterselo. Torture ormai in franchising, auto-squarciamenti splatter (o shakespeariani?), furibonda rabbia privata con sprazzi di rancore sociale. Gli aficionados troveranno nuovi tasselli per completare a ritroso lo psico/puzzle degli eventi. I nuovi arrivati si godano l’ennesimo viaggio nerissimo per forti di stomaco (ma anche di cervello). I detrattori confrontino la tenuta dell’Enigmista con quella dei sequel d Halloween, Venerdì 13, Nightmare ecc, tutti finiti subito alla deriva horror. Avercene di Jigsaw.

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AFFETTI & DISPETTI

Sotto il grembiule, quasi niente: il corpo ancora vergine e già sfatto, lo sguardo umile/fisso e i devoti gesti rituali di una 41enne che ha trascorso 20 anni a servizio nella stessa casa borghese. Ha allevato i figli, le abitudini e i vizi della famiglia che ritiene propria e che ama, sicura di essere a sua volta amata perché indispensabile: moglie troppo svagata, marito troppo golfista, quattro ragazzi da accudire come pupazzi. Titolo italiano sciocchino, ma film cileno drammatico. Asciutto sguardo che coglie il nervosismo immobile di situazioni domestiche: uno Chabrol latinoamericano. La protagonista odia le ‘rivali’ assunte per aiutarla, è gelosa di un gatto, disinfetta ogni corpo (umano) estraneo, vive della gioia di sentirsi chiamare con un soprannome affettuoso dal suo padroncino preferito. E’ un caso umano, è un simbolo sociale. Ma non farà la rivoluzione (in Chabrol si fa), ha solo bisogno di un modello che la restituisca allo shopping, ai compleanni, ai sorrisi, al parto di se stessa. Scena simbolo: una dolorosa telefonata alla madre in cui nulla si dice e molto si intuisce. La straordinaria Catalina Saavedra è il valore aggiunto di una morbosa metamorfosi credibile. Film denso che fa sorridere inquietando. Mix non facile, complimenti al giovane regista di Santiago.

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RAGAZZI MIEI

Il giornalista sportivo inglese Clive Owen lasciò moglie e figlio per un’atleta australiana: messa incinta e seguita in patria. Quando lei muore dopo una straziante agonia, si dedica al loro pargolo con anarchica complicità, sottraendolo alla nonna razionale. Il piccolo alterna momenti di gioco selvatico a pause di immobilità, il padre sceglie di dirgli sempre di sì, trascura il lavoro (ci sarebbero gli Open di tennis a Melbourne) e coltiva il disordine domestico dove prima regnava l’armonioso focolare tra piante di rosmarino. Scena simbolo: una folle corsa in jeep sulla spiaggia col ragazzino sul cofano. Arriva il primogenito, scattano dinamiche di diffidenza e seduzione, ma una doppia serata tragica allontana – di non molto – il lietofine forzato. Dialoghi col fantasma della defunta, voce off che traccia mappe di saggezza pedagogica, panorami-vigne-canguri, preghiere cabriolet, melensa road music, stucchevoli incastri che forzano l’autobiografia all’origine. Il regista Scott Hicks lo fece già 15 anni fa in “Shine”, andata e ritorno dalla nevrosi del pianista David Helfgott. Geoffrey Rush ci vinse l’Oscar. E alla cerimonia Helfgott suonò, strimpellando maldestro. La sceneggiatura con happy end era solo una sceneggiata. Il cinema aveva mentito. Il cinema sentimentalista mente sempre.

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A-TEAM

La serie tv anni ’80, ideata da Frank Lupo, è un cult pirotecnico: amicizia e marchingegni bellici artigianali per . Il film ne rispetta lo spirito: gioca d’astuzia fumettistica, si fa forte dei propri punti deboli, ammicca, sgomma, precipita, decolla, esagera, non vede l’ora di usare i grattacieli come scivoli e di tuffarsi nel gran finale tra gru, container e bazooka nel porto di Los Angeles. I Fantastici 4 (ex) militari – super-non-eroi, mercenari, evasi braccati – oggi sono reduci dall’Iraq: Liam Neeson è Hannibal in scia a George Peppard: sigaro, modi e capelli bianchi sempre a un passo dal salto nell’iperspazio comico/assurdo di Leslie Nielsen nelle Pallottole Spuntate. Il belloccio in rampa di lancio Bradley Cooper è Sberla; il protagonista di “District 9” fa il pilota pazzoide; un lottatore sostituisce il mitico wrestler Mr. T che non ha accettato la comparsata. Godetevi l’autocitazione musical/rombante in realistico 3D. Devono recuperare matrici di dollaroni a Baghdad, dove la Cia (ma va?) ha giocato sporco. Jessica Biel garantisce vampate sexy, lo sceneggiatore di “Mission Impossible 3” e il regista di “Smokin’ Aces” la confusione senza fallo. Tra le boiate di fine stagione – leggi sulle intercettazioni e squalifiche per bestemmia – non è la peggiore.

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IL PADRE DEI MIEI FIGLI

Per capire che finirà male, basta guardare i manifesti dei film che hanno fatto la soddisfazione e la fortuna del produttore che vediamo felice in famiglia e – sempre meno – sul lavoro. Titoli d’Autore appesi nel suo ufficio che si avvia al naufragio con la devota ciurma. Opere che riempiono più di gloria cinefila che di sicurezza economica chi investe in loro. Infatti l’ottimo protagonista di questa intensa tragedia umana indivisibile da quella professionale, ci lascia all’improvviso, dopo aver perso la patente per simbolica distrazione e dopo un viaggio tra simboliche rovine con l’adorata famiglia. E allora tocca a Chiara Caselli, vedova con lo sguardo mutilato e le scarpe basse come radici: punto di riferimento nella trama e attrice di storie necessarie (d’improvviso realizziamo quanto ci sia mancata). Tocca all’ostinazione di chi vuole che l’ultimo film vada in porto e a quella di chi scopre passati segreti di famiglia. Una regista che viene dalla critica e andrà molto lontano, si ispira alla vera vicenda di un produttore suicida e la trasforma in parabola/capolavoro sul mestiere del cinema e su quello di dover vivere tra luci spente che (forse) (non) si riaccenderanno. Sincero fatalismo francese mai saccente. Ovvio che da noi esca a fine stagione, tra i fondi di magazzino.

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ABOUT ELLY

Tre coppie con figli lasciano Teheran per qualche giorno di vacanza sul Mar Caspio. Spensierati, urlano nelle gallerie. Hanno borse e occhiali griffati, affittano una villa. Con loro c’è l’insegnate di uno dei ragazzini: una giovane titubante. Vogliono farle conoscere l’unico single del gruppo, appena mollato dalla moglie in Germania. Lei fatica a lasciarsi coinvolgere nei loro giochi e dalle loro malizie. Vorrebbe tornare a casa: ha una madre apprensiva e un segreto noto a una sola delle nuove amiche. Un aquilone, un bimbo in pericolo e la folgorazione che causano la sua sparizione in mare. L’ambiente e la compagnia si trasformano: d’improvviso vediamo i calcinacci di una casa spoglia e una spiaggia plumbea; affiorano rabbiosi spigoli tra mogli e mariti, uomini e donne, paura e tradizione, dolorose verità e menzogne necessarie. Il film di Asghar Farhadi è magistrale soprattutto per ciò che NON dice. Senza l’ambizione di farsi metafora politico/religiosa, scava atmosfere rivelatrici dell’Iran di oggi. Quello che mette in galera Jafar Panahi, regista del capolavoro “Oro rosso”. Quello da cui la protagonista col viso da Belen d’oriente è stata bandita per aver recitato – senza velo! –in “Nessuna verità” di Ridley Scott.

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