Il giornalista sportivo inglese Clive Owen lasciò moglie e figlio per un’atleta australiana: messa incinta e seguita in patria. Quando lei muore dopo una straziante agonia, si dedica al loro pargolo con anarchica complicità, sottraendolo alla nonna razionale. Il piccolo alterna momenti di gioco selvatico a pause di immobilità, il padre sceglie di dirgli sempre di sì, trascura il lavoro (ci sarebbero gli Open di tennis a Melbourne) e coltiva il disordine domestico dove prima regnava l’armonioso focolare tra piante di rosmarino. Scena simbolo: una folle corsa in jeep sulla spiaggia col ragazzino sul cofano. Arriva il primogenito, scattano dinamiche di diffidenza e seduzione, ma una doppia serata tragica allontana – di non molto – il lietofine forzato. Dialoghi col fantasma della defunta, voce off che traccia mappe di saggezza pedagogica, panorami-vigne-canguri, preghiere cabriolet, melensa road music, stucchevoli incastri che forzano l’autobiografia all’origine. Il regista Scott Hicks lo fece già 15 anni fa in “Shine”, andata e ritorno dalla nevrosi del pianista David Helfgott. Geoffrey Rush ci vinse l’Oscar. E alla cerimonia Helfgott suonò, strimpellando maldestro. La sceneggiatura con happy end era solo una sceneggiata. Il cinema aveva mentito. Il cinema sentimentalista mente sempre.
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