Una giovane giudice, afflitta da un tumore che tiene segreto alla famiglia, si schiera dalla parte di una ragazza, vittima inconsapevole di uno

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Una giovane giudice, afflitta da un tumore che tiene segreto alla famiglia, si schiera dalla parte di una ragazza, vittima inconsapevole di uno
Lezioni di piano, a Buenos Aires. Una donna di mezza età, minata da un male (forse) incurabile e da un matrimonio moribondo, e una ragazza che spenna galline sognando di fare la biologa in Patagonia. Sono italiane: diversamente fragili, ma entrambe bisognose di un abbraccio che non tarda a sbocciare. Ne nasce un rapporto che non ha la forza di resistere a lungo, ma possiede il respiro – spesso sanamente conflittuale – per riconsegnarle all\’essenza dei propri desideri. Nel delicato film dell\’esordiente Stefano Pasetto, Sandra Ceccarelli passa da un tentativo di suicidio alla curiosità per l\’altro sesso (e per i leoni marini) con il piglio convincente di chi sbraccia disperato fino a vincere la solitudine. Francesca Einaudi, col consueto taglio sbarazzino, è una boa salvifica per la sua compagna e per il cinema italiano in apnea.
Ancora Tim Burton in versione gotico/grottesca. E ancora Johnny Depp, sempre più \’tendenza Renato Zero\’. Da una serie tv cult negli States a cavallo degli anni 70 (1245 episodi), un film horror/giocattolo che sa di nostalgia. Dopo aver spezzato, nel 700. il cuore della splendida strega vendicativa Eva Green, il protagonista Barnaba Collins viene trasformato in vampiro e sepolto per due secoli. Esce dalla bara e si siede sdegnosamente a tavola nella magione che fu sua, ora occupata da Michelle Pfeiffer, discendente/matriarca che forse ha ucciso il marito nascondendone il corpo in cantina, e da sua figlia Chloë Moretz in preda a esplosive turbe adolescenziali.. E può mancare Helena Bonham Carter nel ruolo della strizzacervelli alcolizzata? Va tutto bene stilisticamente, va molto bene il tono sardonico (o, se trovate complessa la parola, sarcastico). Va meno bene l\’assuefazione dark a cui Burton ci ha portato. Strano difetto, ma comincia a farsi sentire.
Nato e celebrato come genere implicitamente rivoluzionario, l\’horror oggi ha vita dura. Tutto il sangue è già stato sparso, ogni suspense è stata esaurita, l\’accettazione dei cliché si è ormai tramutata in irritata assuefazione ai cliché, e le rivoluzioni zombie sono zombie barcollanti per gli schermi. Impossibilitato per dna a partorire effettive novità, oggi l\’horror lo salvano solo la capacità di inserire pagliuzze di idee nuove nella mattanza collaudata e la capacità di essere autoironico. Qui gli addendi funzionano. Il solito gruppo di giovinastri, tra cui Chris Tom Hermworth, legge male i segnali di inizio gita (le asperità da totem del benzinaio sputacchiante) e si va a infilare nella trappola del titolo. Che c\’è sotto qualcosa, a parte la cantina malefica, lo sappiamo da subito. La (mala)sorte dei protagonisti è gustosamente telecomandata ultra-tecnologicamente (più debole è il motivo rituale di tutto ciò) da Richard Jenkins e compari che brindano a ogni corpo squartato dopo aver scommesso su quale dei mille mostri a disposizione (tritoni e Yeti compresi) sarà scelto (dai malcapitati) per compiere l\’opera. Gran splatter finale di gabbie aperte e morsi mannari. Finalaccio, ma fin lì si gode.
Doppiamente fuggiasca, dalla famiglia che l\’ha trascurata (periodo che non vediamo, ma fa da aculeo della memoria), e da due anni trascorsi in una comunità boschiva che rifiuta la società intossicata dal commercio, la giovane protagonista trova rifugio dalla sorella maggiore in vacanza sul lago col marito in carriera e in procinto di avere un figlio. Ma riposare nelle abitudini \’borghesi\’ le è impossibile. In lei ha messo radici una filosofia che predica si debba solo esistere senza nulla progettare. In lunghi flashback asettici assistiamo alla sua prima volta, uguale a quella di tutte le altre ragazze: vittima delle voglie del capo della setta. E a canzoni hippy e coltivazioni ecologiche alternate a sanguinarie rapine. Lo sguardo smarrito di Elizabeth Olsen illumina il buon esordio di un regista luciferino in bilico tra tensione e isteria, attutite ma in agguato.
MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO
Regia di Stephen Daldry
Con Thomas Horn, Tom Hanks, Sandra Bullock, Max von Sydow
Drammatico Usa 2011
Se il sole si spegnesse, la sua luce ci raggiungerebbe ancora per otto ignari minuti. Così un 11enne, dopo che il padre Tom Hanks è stato inghiottito (o si è lanciato) dalle Torri Gemelle, vuole affrontarne la morte che non accetta prima che si spenga l\’eco incisa nella sua memoria (e – attimi di terribile cine-verità – sulla segreteria telefonica di casa). Stephen Daldry, regista di capolavori \’letterari\’ in virtù dei quali tutto gli perdoneremmo (“The Hours”, “The Reader”) ci trafigge con raggi toccanti che riescono a spremere dolore con uno stile che lo evoca, ma non lo esige con mezzucci da cry-movie. Ogni cosa di New York – quartieri, sassi, altalene a Central Park – è illuminata dall\’ostinata ricerca del ragazzo, a caccia di un nome e di una serratura che corrispondano a misteriosi indizi paterni ritrovati per caso. Sembra svaporare in odio il rapporto con Sandra Bullock, stavolta impossibile da ribattezzare Sandrina: giganteggia come madre in una gigantesca scena madre. Stride invece Max von Sydow nel ruolo di un nonno muto spuntato da un passato di guerra così lontano eppure tanto vicino (stona il ruolo, e l\’attore non è da meno). Daldry, già \’babbo\’ di “Billy Elliot”, non guarda all\’infanzia da adulto e non si sforza di indossarne gli occhi: è un non-Spielberg che legge Virgina Woolf invece di Stepehn King e conduce alla maturità un altro anatroccolo ferito: il giovane (e bravissimo) Thomas Horn che sembra davvero uscito del romanzo di Jonatan Foer, riveduto e non corrotto dalle sapienti mani degli sceneggiatori di “Forrest Gump” e “Benjamin Button”. Apprendiamo che l\’uomo è l\’unico animale che piange (ma gli elefanti ci vanno vicino) e piange soprattutto al cinema. Impossibile resistere alla metafora del sole spento e del cono di luce in dissolvenza. Indossandola, fuor d\’età adolescenziale iper-attiva e con un occhio della mente a “Melancholia”, si rischia grosso. Grossissimo.
Film a episodi, che scopiazza la commedia all\’italiana del glorioso tempo che fu (goliardia che girava alla larga dalla volgarità) per ricalcare il peggio del cinema americano di oggi: ostinata volgarità contrabbandata per goliardia (maschilista). Molti registi all\’opera, tra i quali il premio Oscar per The Artist, Jean Dujardin, anche interprete e sceneggiatore. Il primo piano preferito è sempre quello: petti femminili in movimento. La morale è peggio: agli uomini per tradire basta un letto, alle donne occorre per forza un sentimento. Sedute collettive per traditori puntualmente smascherati e cast sprecato all\’inseguimento dell\’intesa complice tra torelli inesplosi. Storie che urtano le spettatrici? No, più umilianti per il pubblico maschile.
Telefilmone da serie tv svaccata. Il primo episodio della nuova saga che ha sbancato gli Sates, dapprima operuccia letteraria e ora operuccia cinematografica, non tocca i bassifondi di insopportabile comicità diafano/lussuriosa di “Twilight”, ma è un contenitore poco libero e fintamente selvaggio senza una sola immagine di cinema – nemmeno con la c minuscola – all\’interno. Si fa prima a dire cosa salvare: la presa per i fondelli (si spera sia tale) del fashion system e della stilisteria sarto/compiaciuta, con Lenny Kravitz a dettar focosa legge. E l\’espressività a prescindere (con fisicità adeguata) della brava Jennifer Lawrence che ha preso il posto della sorellina nell\’annuale reality death show offerto in sacrificio agli dèi della tv (ma qui la critica è banale assai: i capelli istrionici del conduttore Stanley Tucci e la cinica chioma bianca del \’produttore\’ Donald Sutherland) per antica tradizione che la trama spiega con motivazioni pretestuose. Come, d\’altra parte, tutto il resto. Psicologia dei protagonisti eroi/fidanzatini poca (c\’è anche il ben cresciuto Josh Hutcherson di Terabithia). Psicologia dei loro rivali zero, anzi se ne perde subito il conto. Psicologia della Natura manovrata matrigna sottozero. Movimenti di macchina da blockbuster per caso. Il gioco al massacro, come al solito, è con la pazienza.
Quasi mai al cinema uno più uno fa tre, ottenendo forzuti risultati grazie alla somma di personaggi forti. Neppure se si tratta di supereroi; neppure se sono ben sei. Elenchiamoli per la gioia del pubblico fanciullo, ormai pericolosamente sbilanciato oltre l\’età consentita: Iron Man (Robert Downey jr, a cui è affidata la verve satirica): Thor (il surfista Chris Hemsworth); Mark Ruffalo Hulk, il belloccio Chris Evans, congelato in Capitan America e il bravo Jeremy Renner con la faretra di Occhio di Falco. Alla sensuale Vedova Nera Scarlett Johansson basta uno sguardo languido per surclassarli mentre lottano e rombano col pilota automatico e l\’autoironia a livelli decenti, ma seppellita dal Prevedibile Nulla Cosmico della trama. Il fratellastro di Thor fa un gran casino con sguardo languido e frustrazione degna di miglior risultati. Gwyneth Paltrow si limita a un paio di scene non compromettenti.
Impermeabile ai decenni, nata e cresciuta su tacchi calzati con eleganza da palcoscenico, abituata dal cinema a riflettersi in specchi e ruoli che ne restituiscono il profilo più nobile del reame, Fanny Ardant è sempre una delizia per lo sguardo di chi ama il cinema di classe (che non sembra vuol dire snob). Il nipote di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini (nonché di zia Isabella) la inquadra con devota dedizione mentre interpreta un\’attrice che vive la sua serata di gloria (passata) e introspezione (presente) incontrando ricordi e parenti, stucchi e stoviglie, nobili arredi e dolorosi dialoghi. Ma anche boschi e tramonti. Il rimorso funziona in senso viscontiano, ovvero per chi non si irrita al cospetto di crucci del tutto altrui. Altri figli d\’arte nel cast: Kiera Chaplin, nipote di Charlot. E Brenno Placido, rampollo di Michele.