Dal romanzo di Alessandra Montrucchio, semplificato con l’accetta. Una 27enne infatile in cerca di creatività s’innamora di un 15enne che desidera e teme la sua prima volta. Lei ha due amiche che la sfottono, una madre troppo complice, una cotta stile Rossella O’Hara. Lui si sfoga con graffiti e baseball (ce ne spiega lo spirito meglio di Kevin Costner). Ruba i preservativi al padre giovanilista che si fa le canne, snobba le coetanee, sopporta le libidini del cugino: lo spiritoso Daniele De Angelis. Ci sono la voce fuori campo, i sottotitoli e una cronaca scritta, ma non è il diario di alcuno scandalo. Il tono scelto dal regista debuttante Fabio Tagliavia è quello della commedia gggiovane che affolla i luoghi comuni in spazi e dialoghi: la palestra, il losco bagno della disco, gli atelier compiacenti, il gossip, le situazioni che ti aspetti, le battute così volgari da esplodere innocue (che dire del rossetto a prova di p…?). Sesso musicato, vestito e fuoricampo. Disinnesca ogni prurito la scelta di Nicoletta Romanoff che ha uno strepitoso handicap fisico: dimostra 20 anni. Il bravo Federico Costantini ha qualcosa di Stefano Dionisi, che debuttò in un ruolo analogo. Leggerezza (superficialità?) assoluta che scantona ogni strike, incurante di trovare una base a cui condurre il finale.

Dal romanzo di Alessandra Montrucchio, semplificato con l’accetta. Una 27enne infatile in cerca di creatività s’innamora di un 15enne che desidera e teme la sua prima volta. Lei ha due amiche che la sfottono, una madre troppo complice, una cotta stile Rossella O’Hara. Lui si sfoga con graffiti e baseball (ce ne spiega lo spirito meglio di Kevin Costner). Ruba i preservativi al padre giovanilista che si fa le canne, snobba le coetanee, sopporta le libidini del cugino: lo spiritoso Daniele De Angelis. Ci sono la voce fuori campo, i sottotitoli e una cronaca scritta, ma non è il diario di alcuno scandalo. Il tono scelto dal regista debuttante Fabio Tagliavia è quello della commedia gggiovane che affolla i luoghi comuni in spazi e dialoghi: la palestra, il losco bagno della disco, gli atelier compiacenti, il gossip, le situazioni che ti aspetti, le battute così volgari da esplodere innocue (che dire del rossetto a prova di p…?). Sesso musicato, vestito e fuoricampo. Disinnesca ogni prurito la scelta di Nicoletta Romanoff che ha uno strepitoso handicap fisico: dimostra 20 anni. Il bravo Federico Costantini ha qualcosa di Stefano Dionisi, che debuttò in un ruolo analogo. Leggerezza (superficialità?) assoluta che scantona ogni strike, incurante di trovare una base a cui condurre il finale.
Il difficile è rimetterli in tasca, i pugni.
Farlo 50 anni dopo averli sfoderati in un film che è stato (e rimane) un colpo allo stomaco inferto a se stesso e all\’Italia familista tutta: la necessità di spezzare le reni a un\’istituzione, a un\’appartenenza, a legami di sangue vissuti come vincoli da recidere metaforicamente (e fisicamente) nel sangue. Nel 1965, un allucinato Lou Castel in bianco e nero, sterminava la famiglia borghese nel paese, nella casa e nell\’opera prima di Marco Bellocchio. Oggi – o per meglio dire, nel corso di un decennio, essendo Sorelle Mai un work in progress che va dal 1999 al 2008 – Bellocchio è tornato a girare a Bobbio e nelle stanze che covarono quel livore. Complici gli studenti del Laboratorio di Fare Cinema, ha realizzato sei episodi concatenati che hanno per protagonisti le sorelle anziane del regista, Letizia e Maria Luisa, il figlio maggiore Piergiorgio e la figlioletta Elena.
Parenti che diventano personaggi, caratteri simbolici e identità reali che si sovrappongono e si confondono in questo struggente ritorno volontario che raramente prova a prescindere da se stesso, e quando ci prova, quando si inventa improvvidi sentieri secondari, subito vi si perde (la scena degli strozzini) come fosse un Pollicino disorientato che non ritrova le sue briciole.
Ogni figura principale è comunque carne della carne di Bellocchio, gente sua, sua memoria. E\’ una pacificazione questa? Un pentimento? Il pellegrinaggio intellettuale di chi ieri si unì al grido di André Gide (
Bellocchio non cerca una riconciliazione, ma trova in sé l\’affetto. Su queste ottuagenarie Sorelle Mai (nel film, l\’avverbio fa anche da cognome) si stende la mano dell\’uomo e del cineasta che ne contempla lo stato di sorelle sempre. Che celebra infine con condiscendenza la mancanza di alternative che loro stesse raccontano con rassegnato pudore: generose nel dare, spassose nel pretendere la cappella mortuaria mettendo a repentaglio un affare al cospetto del notaio, amabili dinosauri di un costante non-divenire in un nido sicuro, il guscio che Bellocchio ha voluto spezzare. L\’antico astio ribelle lascia il posto alla compassione e persino alla dedica, ma senza mai rinnegare l\’arte che da quella rottura è derivata.
Sulle rive del Trebbia assistiamo ad arrivi e partenze: l\’aspirante attore primogenito (nonché aspirante fidanzato) si trattiene sempre meno di quanto programmato, sua sorella (Donatella Finocchiaro) si dibatte a Milano in cerca di fortuna, la bambina cresce bellissima. Un\’opera lirica rintocca immutabile ogni estate. Il sabato del villaggio promette baci che restano solo nella memoria di chi resta. La vecchia casa muta dimensioni, germoglia in sé nature morte che sfuggono all\’inquadratura, ospita eterni amici in visita, una professoressa immatura (Alba Rohrwacher) e spezzoni de I pugni in tasca: saltuaria irruzione nei luoghi dell\’antico delitto.
Sorelle Mai è un\’opera dalla sostanza intensa che ha scelto – il perché lo si è già accennato – la forma del filmino, come ci piace chiamare le preistoriche riprese dell\’infanzia: un diminutivo che è già una carezza. E\’ una forma frequente nel nostro cinema, è suggestiva, evocativa, forse la più adatta alle ombre del ricordo. Mezzi poverissimi, costo zero.
E\’ infine un commiato da un luogo e da un tempo, quello di Bellocchio? Lo splendido finale lo lasca intendere: solenne, malinconico, fluviale. Su note che sono memoria condivisa e non più soltanto del regista: Modugno più di Cechov: un lirico vecchio frac indossato da un addio.
Sorelle Mai non sarà l\’ultimo film di Marco Bellocchio, già lo splendido e sottovaluto Vincere gli è in realtà posteriore. Ma quello più intimo e definitivo sì.

Dopo 14 anni, 7 libri, 8 film, 450 milioni di copie vendute e oltre 6 miliardi di dollari incassati (finora), il maghetto finalmente rimbalza contro la maledizione della propria nascita e affronta Voldemort faccia a faccia (naso a parte) dopo avergli seccato i punti deboli. L\’ultimo capitolo sale di tono e di volume rispetto alla micidiale prima parte: Hogwarts in macerie è un susseguirsi di scene ben girate da David Yeats, al suo quarto Potter, dopo i fanta-balocchi di Chris Columbus, il cupo (ma suggestivo) Azkaban di Alfonso Cuarón e il dimenticabile Calice di fuoco di Mike Newell. Nel consueto mix di Amleto, Mary Poppins, spaghetti western e “Star Wars” – che nelle pagine della Rowling suscita incuriosito stupore e sullo schermo risulta un treno di vagoncini fantasy senza vere sorprese – si rimpiange la compattezza dei tempi in cui le gesta di Harry sbacchettavano tra i sicuri confini di un singolo anno scolastico. Ora il Degno Finalone esige l\’instancabile rincorsa a oggettistiche stregate e a vecchi fantasmi, lottando contro neri eserciti visivamente scopiazzati dal Signore degli Anelli. Giunti al capolinea del binario fatato, con i personaggi invecchiati che vi accompagnano i figli (sigh), non possiamo non ribadirci potteriani. Da 14 anni dopati (ops) dalle pozioni vincenti di Hermione e altri Pitoni.

Al dodicesimo minuto del primo tempo di Notizie dagli scavi le lamentele di una prostituta prendono lo spettatore in contropiede:
Euro??
Il suono di una moneta troppo nuova rotola nella casa di appuntamenti romana che fino a quel momento avevamo ritenuto saldamente immersa negli anni Sessanta. Ma dove avremmo dovuto scorgere un segno moderno, una tinta reale, uno squillo contemporaneo, in quel piccolo mondo antico privo di cellulari, arredato come un\’alcova improvvisata e colorato declinando ogni ombra dell\’ocra nel corridoio e intorno al letto con la spalliera a ventaglio, e poi arieggiando ogni tempera del verde-acqua in una cucina che fa tanto Eduardo? La sorpresa si trasforma in senso di colpa, con i film d\’autore capita sempre. Mettiamo finalmente a fuoco quel frigorifero troppo blu, di certo recente: un pugno nello stomaco cromatico e temporale, proprio alle spalle della Gina che fuma accanita in vestaglia (Anna Paola Vellaccio, egregiamente lasciva).
Eppure no… la radiolina è vecchia. I soprammobili pure. E le tende sembrano disegnate. Però lui le apre, il flaccido factotum, forse autistico, che le signorine chiamano Professore, ma coprono di insulti e rimproveri:
Bernardo Bertolucci affronta il vuoto: quello delle ammalianti distese del Sahara, e quello dello spirito capace di annullare l’esistenza. Dal romanzo di Paul Bowles, un viaggio nei sensi tormentati di una coppia in crisi sia personale – sono in viaggio in Africa con un terzo incomodo – che artistica: un musicista e una scrittrice in uguale crisi di ispirazione. L’intenso John Malkovich perde la vita a causa del tifo; Debra Winger perde la voglia di battersi e si unisce ai Tuareg. Film smisurato quanto il deserto: scava nei luoghi e nell’anima con l’attenzione del viaggiatore che nulla a che fare con la foga del turista.