Il difficile è rimetterli in tasca, i pugni.
Farlo 50 anni dopo averli sfoderati in un film che è stato (e rimane) un colpo allo stomaco inferto a se stesso e all\’Italia familista tutta: la necessità di spezzare le reni a un\’istituzione, a un\’appartenenza, a legami di sangue vissuti come vincoli da recidere metaforicamente (e fisicamente) nel sangue. Nel 1965, un allucinato Lou Castel in bianco e nero, sterminava la famiglia borghese nel paese, nella casa e nell\’opera prima di Marco Bellocchio. Oggi – o per meglio dire, nel corso di un decennio, essendo Sorelle Mai un work in progress che va dal 1999 al 2008 – Bellocchio è tornato a girare a Bobbio e nelle stanze che covarono quel livore. Complici gli studenti del Laboratorio di Fare Cinema, ha realizzato sei episodi concatenati che hanno per protagonisti le sorelle anziane del regista, Letizia e Maria Luisa, il figlio maggiore Piergiorgio e la figlioletta Elena.
Parenti che diventano personaggi, caratteri simbolici e identità reali che si sovrappongono e si confondono in questo struggente ritorno volontario che raramente prova a prescindere da se stesso, e quando ci prova, quando si inventa improvvidi sentieri secondari, subito vi si perde (la scena degli strozzini) come fosse un Pollicino disorientato che non ritrova le sue briciole.
Ogni figura principale è comunque carne della carne di Bellocchio, gente sua, sua memoria. E\’ una pacificazione questa? Un pentimento? Il pellegrinaggio intellettuale di chi ieri si unì al grido di André Gide (
Bellocchio non cerca una riconciliazione, ma trova in sé l\’affetto. Su queste ottuagenarie Sorelle Mai (nel film, l\’avverbio fa anche da cognome) si stende la mano dell\’uomo e del cineasta che ne contempla lo stato di sorelle sempre. Che celebra infine con condiscendenza la mancanza di alternative che loro stesse raccontano con rassegnato pudore: generose nel dare, spassose nel pretendere la cappella mortuaria mettendo a repentaglio un affare al cospetto del notaio, amabili dinosauri di un costante non-divenire in un nido sicuro, il guscio che Bellocchio ha voluto spezzare. L\’antico astio ribelle lascia il posto alla compassione e persino alla dedica, ma senza mai rinnegare l\’arte che da quella rottura è derivata.
Sulle rive del Trebbia assistiamo ad arrivi e partenze: l\’aspirante attore primogenito (nonché aspirante fidanzato) si trattiene sempre meno di quanto programmato, sua sorella (Donatella Finocchiaro) si dibatte a Milano in cerca di fortuna, la bambina cresce bellissima. Un\’opera lirica rintocca immutabile ogni estate. Il sabato del villaggio promette baci che restano solo nella memoria di chi resta. La vecchia casa muta dimensioni, germoglia in sé nature morte che sfuggono all\’inquadratura, ospita eterni amici in visita, una professoressa immatura (Alba Rohrwacher) e spezzoni de I pugni in tasca: saltuaria irruzione nei luoghi dell\’antico delitto.
Sorelle Mai è un\’opera dalla sostanza intensa che ha scelto – il perché lo si è già accennato – la forma del filmino, come ci piace chiamare le preistoriche riprese dell\’infanzia: un diminutivo che è già una carezza. E\’ una forma frequente nel nostro cinema, è suggestiva, evocativa, forse la più adatta alle ombre del ricordo. Mezzi poverissimi, costo zero.
E\’ infine un commiato da un luogo e da un tempo, quello di Bellocchio? Lo splendido finale lo lasca intendere: solenne, malinconico, fluviale. Su note che sono memoria condivisa e non più soltanto del regista: Modugno più di Cechov: un lirico vecchio frac indossato da un addio.
Sorelle Mai non sarà l\’ultimo film di Marco Bellocchio, già lo splendido e sottovaluto Vincere gli è in realtà posteriore. Ma quello più intimo e definitivo sì.

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