Latte macchiato di orgoglio, superficialità carogna e dilettantismo spacciato per finanza creativa:
Non ci sono kattivi con la k nel cinema italiano che oggi getta lo sguardo sulle malefatte sociali, politiche ed economiche del Bel Paese. Manca la materia prima: la statura tragica dei soggetti. Manca il nero shakespeariano che tinteggia Hollywood, la Casa Bianca e Wall Street, la diabolica consapevolezza degli squali alla Gordon Gekko che innesca – e spesso spinge fuori misura – l\’ira cine-vendicativa di Oliver Stone e Michael Moore. Il più potente riassunto del cinismo tricolore – Il divo di Paolo Sorrentino – è uno struggente capolavoro grottesco. I nostri film di denuncia non alzano più la voce e gli spartiacque morali alla maniera di Francesco Rosi: il cattivo italico contemporaneo è disumano in senso patetico: la tragedia è sempre di uomini in fondo ridicoli.
Andrea Molaioli indaga nella melmosa via lattea di un\’azienda di provincia, che tantissimo ottenne e tantissimo precipitò, con lo stesso tono psico/noir che ha fatto la fortuna del precedente La ragazza del lago. Siamo calati nel buco nero di debiti, orgoglio e superficialità in cui sprofonda la Leda (Latte E Derivati Associati, ma tutti sappiamo che si parla di Tanzi) attraverso la vanagloria e le debolezze di timonieri inadeguati. Arriveranno le manette, ma è un particolare secondario, un fotogramma. Nessun eroe, nessun detective si erge sulla trama, e Molaioli si ferma alla soglia del processo, di ogni processo. La condanna scaturisce dai comportamenti che ha tratteggiato, in perenne chiaroscuro, con i co-sceneggiatori Gabriele Romagnoli e Ludovica Rampoldi. Un amaro misto di rassegnato livore e stizzita curiosità umana che ha il limpido merito di evitare ogni complice pietas cinematografica scrutando nel torbido Così, il silenzio dei truffati risuona glaciale ne Il gioiellino, ma la loro è una voce che non ci può essere, perché mai era stata presente nelle orecchie e negli scrupoli dei burattinai.
Non è tutto Parmalat ciò che qui lo sembra. La storia è ambientata in Piemonte, rimanda a Parma, ha echi d\’oltreoceano. Nel mirino c\’è il crac dell\’economia intesa come gioco di specchi, come vittoria della \’finanza creativa\’ sui capitali solidi, come filosofia secondo la quale
In una battuta buona per ogni tempo e per ogni parte politica, un senatore (Renato Carpentieri) dice che per farsi strada occorrono un giornale, una squadra di calcio e una banca. Quando tutto crolla, qualcuno si suicida, qualcuna (Sarah Felderbaum) ha tentato invano di far valere i master all\’estero sui diplomi da ragioniere e sull\’inglese spiccicato basic, qualcuno sotterra le memorie dei computer, qualcuno chiede un appuntamento salvifico al presidente del Consiglio e finisce col vendergli il pezzo pregiata della propria squadra (è Gilardino). Qualcuno confessa la storiella – ecco la \’finanza creativa\’, ecco il grottesco italiano – del preistorico bianchetto con cui vennero truccati i bilanci inventandosi liquidità fittizie in uno scrigno ai Caraibi.
Remo Girone è stato saggio nell\’evitare ogni minimo fiato da boss. Agisce sottotono in ricchezza e in (presunta) povertà: il suo Amanzio Rastelli ricalca la gestualità del Cavalier Calisto, un agire che ha radici antiche, coltiva il rispetto adulante dei concittadini e non sa immaginare il futuro senza il proprio giocattolino dal fondo bucato: più che sul latte versato è probabile che pianga sulle onorificenze revocate.
In un simpatico film di Percy Adlon del 1989 – Rosalie Goes Shopping, stesso regista e stessa teutonica interprete di Bagdad Cafè – una casalinga dell\’Arkansas cede di continuo alla tentazione consumista villeggiando in un lusso kitsch ottenuto surfando tra i massimali di troppe carte di credito. Perché
(da IL SOLE24ORE, marzo 2011)
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