A Poggioreale la brillantina è una divisa. Il ragioniere del carcere napoletano lascia il monotono lavoro quotidiano, dopo aver quotidianamente svuotato la cassaforte, e si tuffa nel quartiere in cui galleggia monotono coi capelli corvini impomatati, gli abitucci grigi appesi addosso, il broncio da padrino fallito. Gioca per vizio morboso ma asciutto: poker nel retrobottega di un ristorante cinese, macchinette in bar squallidi, bingo in sale troppo colorate dove vegliarde col doppio rossetto gli fanno le fusa. Poca vita, sempre quella. Qualche sonnolenta tappa in chiesa e al cimitero, una stanza in apnea, la voglia violacea in faccia da cui il soprannome. Solo l’occhio gli guizza al seguito del frusciare delle banconote: sempre di meno, sempre più fetide. Non legge correttamente i segni: il fiorire di frutti allineati in una slot è solo un’illusoria trappola del fato (vedi: Irène Jacob in “Film Rosso”). L’omino vesuviano ondeggia. Le conseguenze dell’amore per una giovane orientale con padre indebitato, lo spingono ad azzannare pesci più piccoli di lui. Ma è una pedina dal destino segnato. Non è un film dell’ottimo Paolo Sorrentino, nonostante analogie sorprendenti (lo sgradevole protagonista guarda sgradevoli documentari di animali come lo sgradevolissimo ‘amico di famiglia’). E’ un film dell’ottimo Stefano Incerti de “L’uomo di vetro”. Nobile opera di miserie quasi mute. Tutta sulle spalle di Toni Servillo. Spalle da Chaplin.
No Comments