Dorme sepolto in un campo chissà dove, in Iraq. Poi si sveglia in una cassa di legno di tre metri: legato, spaventato, con un cellulare che userà tantissimo e un accendino che userà troppo. E’ un giovane autista yankee con moglie e figlio a casa, non un soldato, Ma per chi l’ha messo lì è comunque un invasore. In 90 minuti, in tempo reale, il film di Rodrigo Cortés porta allo spasimo ogni meccanismo a sua disposizione: angoscia, disperazione, claustrofobia, conversazioni rabbiose con rapitori e salvatori, bombardamento esterno con cascate di sabbia all’interno, collegamento a YouTube, minacce, serpenti, addii. Il che non vuol dire che quello spasimo si traduca in partecipazione di chi guarda, o nell’ammirazione che sembra esigere il regista citando nonno HItch a ogni fiato. Funzionano i primi piani di peli di barba insanguinati, funziona (e colpisce) la terribile telefonata coi datori di lavori preoccupati solo di scaricare le responsabilità. Funziona Ryan Reynolds: sempre scomodo, ritorto, costretto a gestire ombre e fiammelle fuori e dentro di sé. Ma la Sposa che ‘si gratta fuori’ dalla tomba in “Kill Bill” ha uno sporco pathos che si compiace di meno e asfissia di più. Sorpresa finale. Se siete buoni giallisti, avrete colto l’indizio giusto per spalare via anche quella.
No Comments