Uno scrittore suicida ha lasciato una famigli allargata che ne sconta la memoria nella campagna sudamericana: la vedova che sogna l’Europa, la ragazza messa incinta e portata in casa, la figlioletta, il fratello gay con amante più giovane. Arriva l’ospite inatteso: un biografo maldestro, bisognoso di realizzarsi lontano dalla fidanzata troppo esigente che farà presto irruzione. Nel romanzo all’origine, Peter Cameron descrive con acuto stile compiaciuto questo magma umano quieto ma insidioso. Siamo nella terra del realismo magico e di romantiche avventure. Ma a James Ivory basta puntare la camera con vista sull’Uruguay, congelando i personaggi in bozzetti da cui nulla traspira e di cui nulla ci importa. C’è un capannone che cela una simbolica gondola, ma, affinché il riverbero sia migliore, gli manca un lato (e allora perché lo scassinano?). Ci sono Laura Linney, Charlotte Gainsbourg e Anthony Hopkins sprecati. Ci sono siepi e ombrellini in controluce, bestiame contromano, destini a senso unico. Estetica da cristalleria (anche sentimentale). Nessuna sorpresa: Quel che resta di Ivory è ciò che Ivory è sempre stato: i drammi borghesi di “Casa Howard” e quelli omosex di “Maurice” culminavano – che guaio – nella tragica caduta di un mestolo, nell’orrido arricciarsi di un tappeto.
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