Il folle chirurgo plastico Antonio Banderas (legnoso) sintetizza una pelle artificiale quasi inviolabile per cancellare la brutta morte della consorte e lo stupro della figlia suicida. Sequestra il presunto violentatore, gli cambia (ehm) sesso, lo trasforma in un clone della moglie e se ne innamora. Su eleganti sfondi manieristi si muove con balzi kitsch un fugace uomo vestito da tigre. In un tetro laboratorio noir si mescolano vetrini e vendetta. La fotogenica Elena Anaya, in aderente tuta color pelle e in posizione yoga, è un perfetto feticcio per Almodóvar in sostituzione di Penélope Cruz. Ma il film stesso è un feticcio inesploso: un taglia e cuci di madri segrete e fratellastri a sorpresa, di radicale inventiva e prevedibile stile, in cui il regista sembra ancora – dopo il tedioso “Gli abbracci spezzati” – voler rinchiudere il proprio cinema invece di liberarlo. Amore, anatomia e ginecologia in lotta tra maschile e femminile: poco amabili resti da thriller melodrammatico con citazioni anni Cinquanta. Si ride spesso, ma la sensazione è di sghignazzare sempre quando non si dovrebbe. Un Almodóvar lucente: più chirurgico che davvero morboso, superficiale col bisturi mentre si bea di troppa pelle. Un Almodóvar minore.
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