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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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STEP UP 3D

La sospirata gara di dance underground coi dollaroni in palio. Il magazzino sotto sfratto che ospita la corte dei miracoli acrobatico/danzanti (anche in bagno) tra liberatorie scarpe sfavillanti e muri su cui rimbalzare a tempo. Spruzzi d’acqua e di luce. Gli amici/pirati, ovvero la crew. Il nemico giurato: bello e bullo. Il più bello (anzi vero fico Abercrombie) con storia triste alle spalle e canottiera sotto. La fanciulla contesa: determinata nelle coreografie, ma con un segreto di famiglia. Lo studentello di ingegneria che arriva a New York e fa subito il saltello giusto. La sua amica del cuore che mira al suo cuore. Il tango mascherato. Singin’ and Dancin’ tra i lampioni e attraverso i taxi (ricorda niente?). Doppia scena madre nelle separazioni. Lo stesso regista del secondo episodio. Il 3D che esalta le gocce d’acqua, quelle di sudore e ti libera addosso i palloncini (vedi “Up”). Il documentario girato dal protagonista, così qualche critico s’illumina vedendo cinema nel cinema. Proclami poetici: . Entusiasmi cheap: . Risposte free style: , . Ecco, a parte la contraddizione, perché i film dove tutti ballano per esseri sinceri o diversi, sono sempre fasulli e tutti uguali?

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BURIED

Dorme sepolto in un campo chissà dove, in Iraq. Poi si sveglia in una cassa di legno di tre metri: legato, spaventato, con un cellulare che userà tantissimo e un accendino che userà troppo. E’ un giovane autista yankee con moglie e figlio a casa, non un soldato, Ma per chi l’ha messo lì è comunque un invasore. In 90 minuti, in tempo reale, il film di Rodrigo Cortés porta allo spasimo ogni meccanismo a sua disposizione: angoscia, disperazione, claustrofobia, conversazioni rabbiose con rapitori e salvatori, bombardamento esterno con cascate di sabbia all’interno, collegamento a YouTube, minacce, serpenti, addii. Il che non vuol dire che quello spasimo si traduca in partecipazione di chi guarda, o nell’ammirazione che sembra esigere il regista citando nonno HItch a ogni fiato. Funzionano i primi piani di peli di barba insanguinati, funziona (e colpisce) la terribile telefonata coi datori di lavori preoccupati solo di scaricare le responsabilità. Funziona Ryan Reynolds: sempre scomodo, ritorto, costretto a gestire ombre e fiammelle fuori e dentro di sé. Ma la Sposa che ‘si gratta fuori’ dalla tomba in “Kill Bill” ha uno sporco pathos che si compiace di meno e asfissia di più. Sorpresa finale. Se siete buoni giallisti, avrete colto l’indizio giusto per spalare via anche quella.

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LA MIA AFRICA

La vita della scrittrice danese Karen Blixen nei primi decenni del Novecento: il matrimonio di mera convenienza con un barone quasi asburgico (Klaus Maria Brandauer), l’arrivo in Kenia, la sfortunata attività come tenutaria di piantagioni di caffè. Nelle frequenti assenze del marito, che la contagerà con la sifilide costringendola a tornare in Europa per curarsi, conosce un avventuriero inglese con la (maledetta) passione per il volo e se ne innamora. Rimasta vedova del proprio amante, si darà anima e corpo alla passione per la terra d’Africa, aiutata da una fotografia e da una colonna sonora da Oscar (premiati anche film, regia e sceneggiatura). Sydney Pollack sceglie il tono lirico, lento, contemplativo, quasi spirituale. Complice le ammalianti rughe assolate di Robert Redford, e signore di tutto il mondo gradirono molto, mentre i poco romantici mariti sbadigliavano in poltrona. Meryl Streep dona spessore a un mal d’Africa sempre più forte sullo schermo che nella condivisione.

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A CENA CON UN CRETINO

Uno yuppie bisognoso di promozione al grande ufficio con nobili vetrate che lo illuminino agli occhi dei superiori e della fidanzata che non ha fretta di sposarlo, investe con la Porsche un tontolone che vuole salvare un topo in mezzo alla strada (e crede di dover pagare lui i danni). Colleziona roditori con cui realizza splendidi quadretti viventi: topini elegantemente vestiti che amoreggiano a Central Park, o sono protagonisti di strepitose copie di opere famose: dalla Gioconda, al Giudizio Universale, all’Urlo di Munch (vedi “Scream”). Gli sembra l’idiota giusto da portare alla cena a cui il suo boss invita personaggi eccentrici per farsi beffe di loro. Ma l’omino gli si installa in casa, tenta di riconciliarlo con una molesta prostituta sculacciabile, gli rovina la relazione e il business. Poi arriva la fatidica cena, e il candido sognatore che cita (male) John Lennon e imita (benino) Charlot avrà il suo trionfo tra goffi lettori della mente, umani posseduti dal dolore delle aragoste, un antico rivale e borghesi rapaci. Ancor più che nel film francese all’origine (buon successo nel 1998), il confronto sociale svapora a favore di gag spesso simpatiche, ma mai travolgenti. Percorso teatrale facile e segnato. Steve Carell sembra il Mr. Brown di Andrea Pellizzari. Niente per caso.

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LA PECORA NERA

Nato nei favolosi anni Sessanta, illuminati da Gino Paoli e dagli elettroshock, un ragazzino finisce per 35 anni in manicomio. Perché sua madre è morta lì e lui accompagnava la nonna con le uova. Perché va male a scuola, mangia i ragni e confonde matti, santi e marziani (anche femmine). Perché padre e fratelli lo disprezzano e ha visto brutte morti fuori, dentro e sui cancelli. Perché . E’ solo disturbato, cresciuto nell’ossessione di un bisogno di ordine che trova nelle cantilene e nella lista della spesa. Da pazzo, sarà finalmente libero. Libero di chiedere () alla cotta della sua infanzia (Maya Sansa), ritrovata in un supermercato del supermercato Terra, dove per lui il direttore è Gesù Cristo. Ascanio Celestini è un teatrante che surclassa la docufiction, è Pirandello immerso in Dickens, è stralunata Memoria che procede. Approfitta del berretto a sonagli della follia, e dello straordinario alter ego Giorgio Tirabassi, per dire verità poco alla moda sull’uomo, la passione, la religione, l’emarginazione. Non-sensi e non-luoghi al neon. La macchina da presa si fa strumento necessario in questa toccante ballata tragicomica che affronta un tema che può mettere a disagio. Andateci perplessi, andateci di nascosto. Ma andate a vedere a cosa serve il Cinema.

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SOMEWHERE

Una Ferrari nera gira senza foga, ed è subito noia. Stephen Dorff guida e vaga con sguardo indifferente sebbene sia un desiderato attore sex symbol. Subisce in apnea la seduta al trucco e le lap dancer a domicilio. Sesso stanco: si addormenta. Ha il gesso al braccio e faticherà a toglierselo (capita la lieve metafora?). Dopo “Lost in Translation”, la poetica della solitudine si è assopita anche in Sofia Coppola. La sua idea per farci assorbire un uomo annoiato è quella di annoiarci. Non taglia ai suoi giorni le parti noiose: falsi movimenti in decolorati non-luoghi (vedi titolo). Il glorioso Hotel Chateau Marmont di West Hollywood, dove morì John Belushi, fa la figura del motel giallastro (con Benicio Del Toro in ascensore). Lo surclassa il Principe Di Savoia di Milano, dove la trama ha la sVentura di sconfinare. La Simo presenta i Telegatti con Frassica e premia Nichetti senza emettere – tenetevi forte – neppure un ‘insomma’. Laura Chiatti, Valeriona Marini e Jo Champa scodinzolano ognuna a suo modo e lo scazzatone rinasce grazie (uffa) alla solita figlia-ritrovata: la brava Elle Fanning, sorellina della prezzemolina Dakota. Per cambiare marcia con la sua Cleo (leggi: Clio), il ri-babbo si informa su “Twilight”. Ma la Coppola imballa ogni ironia in bello stile e belle musiche. Film risaputo, spossante quanto il Tutor sull’autostrada di notte (la Ferrari infatti ne esce male), premiato all’ennesimo cine-concorso che lascia il tempo che perde. Tarantino forse è un ex della Coppola, di certo da oggi è un ex infallibile.

Capita che, su FILM TV, TOMMASO LABRANCA stronchi ferocemente il film della COPPOLA, paragonandola a LADY GAGA come fenomeno di costume da liquidare senza farla lunga (ma lui la fa lunga con interessanti e condovidibili motivazioni).
Capita che la redattrice CHIARA BRUNO, nell\’articolo di apertura del numero successivo dichiari di amare la COPPOLA e prenda le difese del film (amen).
Capita che azzardi questa chiusa: <... la carrellata lentissima che si (ci) allontana da padre e figlia a bordo piscina. Se non ci siete rimasti dentro siamo contenti per voi, certe vite sono più scorrevoli di altre>.
Capita che mi salta la mosca al naso (appena rifatto) e scrivo a FILM TV:
Dunque, se non ci siamo rimasti dentro (i ragazzini dicono \’sotto\’, come a una droga) nella carrellata piscinante di Sofia Coppola, Chiara Bruno ci taccia di . Abbiamo avuto una vita più SCORREVOLE di altre. E\’ una bella allusione per un finale: stigmatizza senza disprezzare, disprezza senza mirare.
Ma è un\’allusione grave. E sorprendentemente ribaltabile.
Senza entrare nel presunto merito di SOMEWHERE, senza entrare nel sicuro merito delle parole di LABRANCA, noi che sui due piscinanti in allontanamento abbiamo steso la mannaia dell\’ennesimo sbadiglio, sperando – delusi – che fosse l\’allontanamento definitivo, forse siamo solo gente che nella vita si è depressa, ha sofferto e ha visto scorrere ostacoli e nodi scorsoi subendo il morso del disagio e non solo la sua estetica spocchiosa, anzi spottosa.
Senza farsi salvare il culo dall\’ennesima (cine)figlioletta ritrovata, senza il facilone abbandono di un auto per camminare nel proprio spirito, senza mai avere la grazia di togliersi col gesso fuori anche l\’ingessatura dentro (urca che metafore, la Coppola…), senza un percorso fashion decolorato nello stile che facesse capire a tutti quanto eravamo stinti dentro.
I vuoti pneumatici non smettono quasi mai di girare su stessi, e mai di colpo.
E non perché, come diceva la mia nonnina, . Ma perché se no è gran brutto cinema.
Vaselina postmoderna. Uh, come scorre quella…
Con fiducia
Alessio Guzzano

Capita che la lettera venga pubblicata e che la Bruno risponda…

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L\’IMMORTALE

Storia quasi vera (moto quasi) che spara a vuoto sul pubblico, come fu per il realismo tarocco dei due “Nemico pubblico”. Un boss della mala marsigliese è crivellato in un garage: 22 colpi (più uno per il cane), ma la sua ora non è fuggita e lui non muore disperato, come canta fino allo sfinimento pacchiano la Tosca in sottofondo. Medita tremenda vendetta ai danni dell’ex amico divenuto rivale ed elimina i killer a uno a uno, nonostante prevedibili tradimenti e prevedibili guai in famiglia e con la polizia: chi vuole comunque fare giustizia e chi: <…se i criminali si ammazzano tra loro, meglio>. Confezione ocra/chic con squarci splatter di esecuzioni cruente. Madama Butterfly incornicia attimi di dolente speranza: acuto lirismo buono anche nello stile per far volare bossoli e motociclette, abusare (nell’uso) di marmocchi in pericolo e/o in vana attesa, impacchettare droga con troppo pistacchio, rovinare a pallettoni compleanni, funerali, matrimoni e corsie d’ospedale, così da fare eco spocchiosa a “Il padrino”, “Borsalino” e Scorsese a scelta. Ma è solo il meglio (bombarolo) di Luc Besson immerso nel suo peggio: laccata tragedia che sembra parodia noir (o viceversa) e flashback da spot Barilla. Ma i bravi ragazzi hanno facce giuste, Jean Reno anche quando gliela sforacchiano.

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ANIMAL KINGDOM

Sembra siano una giovane coppia lessa sul divano davanti a un telequiz, invece sono madre e figlio: lei stecchita dell’eroina, lui minorenne in apnea. E’ la perfetta introduzione a una giungla umana che si macchierà di morti ammazzati, di odio e di vendetta nella sostanza, senza mai perdere la forma di uno stile freddo eppure curioso, angosciante proprio perché attutito. Raccattato da una bizzarra nonna/omicidi, che apprende senza un lamento della morte della figlia (e via via con reazioni gagliarde delle disavventure degli altri), il ragazzo è testimone di brutti segreti di famiglia: lo zio ricercato fa deleterie irruzioni in casa, un altro è un debole con problemi sessuali ed è in corso una faida senza esclusione di bastardi colpi mortali tra delinquenti e poliziotti, molti dei quali corrotti. Una pistola da sventolare al semaforo può rendere forte chi si sente invisibile persino per l’apparecchio che asciuga le mani nei bagni pubblici: il giovane perde la calma, la ragazza, la fiducia. Fino a trovare un se stesso in trappola: disperato e implacabile. Partendo da un reale fatto di cronaca, un ex reporter di Sidney esordisce dirigendo in modo eccellente un ottimo cast che fa decollare una trama non nuova, sullo sfondo grigiastro di un’Australia lontana dalle cartoline e vicina alla Finlandia di Kaurismaki.

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QUELLA SERA DORATA

Uno scrittore suicida ha lasciato una famigli allargata che ne sconta la memoria nella campagna sudamericana: la vedova che sogna l’Europa, la ragazza messa incinta e portata in casa, la figlioletta, il fratello gay con amante più giovane. Arriva l’ospite inatteso: un biografo maldestro, bisognoso di realizzarsi lontano dalla fidanzata troppo esigente che farà presto irruzione. Nel romanzo all’origine, Peter Cameron descrive con acuto stile compiaciuto questo magma umano quieto ma insidioso. Siamo nella terra del realismo magico e di romantiche avventure. Ma a James Ivory basta puntare la camera con vista sull’Uruguay, congelando i personaggi in bozzetti da cui nulla traspira e di cui nulla ci importa. C’è un capannone che cela una simbolica gondola, ma, affinché il riverbero sia migliore, gli manca un lato (e allora perché lo scassinano?). Ci sono Laura Linney, Charlotte Gainsbourg e Anthony Hopkins sprecati. Ci sono siepi e ombrellini in controluce, bestiame contromano, destini a senso unico. Estetica da cristalleria (anche sentimentale). Nessuna sorpresa: Quel che resta di Ivory è ciò che Ivory è sempre stato: i drammi borghesi di “Casa Howard” e quelli omosex di “Maurice” culminavano – che guaio – nella tragica caduta di un mestolo, nell’orrido arricciarsi di un tappeto.

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UN WEEKEND DA BAMBOCCIONI

Per una volta il titolaccio italiano ci azzecca: questi imbecilli mal (e mai) cresciuti sono bamboccioni e non “Grown Ups” (adulti) come vorrebbe l’originale. Cinquina di personaggi sgangherati (e di comici yankee inesplosi) in cerca della tombola esistenziale tra capitomboli, calci nei testicoli e peti di grasse suocere nere. L’altalenante talento Adam Sandler e amici idioti non vedono l’ora di mettersi gli shorts sulle cosciotte e i popcorn in testa per fare le boccacce a età e responsabilità. Tornano al paesello lacustre per spargere le ceneri del coach di basket che insegnò loro i valori della vita (complimenti). Il ricco hollywoodiano con prole viziata e moglie stilista che adora Milano, il bugiardo adiposo con consorte incinta che ci scherza sopra (le sole battute riuscite), il nudista, il casalingo, il nanerottolo con due figlie stangone (e una no) che fa giochi erotici con una vegliarda. Dopo un’ora vanno al parco acquatico per affogare in gag decrepite come la pipì in piscina (Steve Buscemi, tu quoque?). Ma il peggio sono le patetiche confessioni finali e il dramma di Salma Hayek che rivela alla figlioletta che la Fatina dei Denti non esiste. Disgustoso. E dobbiamo pure sentire che l’Italia è bella perché si vedono le tette in tv. Ma vaff..arci il piacere… direbbe oggi Totò.

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